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"Io,
prete gay: fare sesso non è un peccato"
Corriere della Sera
- «Mia madre per una settimana diceva: mio Dio, la gente, cosa
dirà la gente..., poi se n’è fatta una ragione». La madre di
don Andrea ha capito, anzi sa. Sa che suo figlio, sacerdote
quarantenne, laureato in teologia, un’intensa attività
pastorale ma senza parrocchia, è un omosessuale «praticante»
costretto, per ovvie ragioni, a presentarsi con uno pseudonimo che
lo «protegga». Sa e accetta con serenità, visto che conosce
bene Giorgio, il compagno di Andrea, studente di 26 anni.
Piuttosto, è l’Istituzione che assolutamente non deve sapere. E
anche se don Andrea fosse rigorosamente casto, l’Istituzione
ecclesiastica non dovrebbe sapere, tanto più ora che il Vaticano
sta preparando un’Istruzione per bloccare l’accesso al
sacerdozio ai seminaristi gay. Figurarsi per un sacerdote che «eserciti»
attivamente la propria omosessualità. «Mio padre - dice don
Andrea - è comunista da sempre, tesserato, eppure quando presi
gli ordini sacerdotali era fiero di me, ora però mi dice: ma
lascia perdere, esci...». Uscire significa lasciare la Chiesa,
dopo anni di studio, di fatica e di sofferenze. «La prima volta
che mi sono innamorato di un ragazzo avevo 14 anni, andavo in
discoteca, frequentavo i coetanei e le donne, ma poi appena
entrato in seminario, ventunenne, l’omosessualità divenne un
tabù, non osavo pensarci. Se avevo brutti pensieri andavo subito
a confessarmi». Dopo qualche anno, un incontro, all’interno del
seminario, fa scoppiare tutto ciò che era stato rimosso: «Conobbi
un ragazzo più giovane di me, uscivamo, parlavamo, un giorno di
dicembre gli dissi: a Natale ti farò un regalo... Lui insistette:
lo voglio subito... Mi avvicinai e lo baciai sulla bocca. Dovetti
correre alla finestra per riprendere fiato, mi tremavano le gambe».
La storia dura tre anni, «un vero e proprio fidanzamento. Lui andò
dallo psicanalista, che gli disse: questo è amore e basta,
facevamo mille peripezie per dormire insieme e a casa la domenica
non facevo altro che parlare di lui».
Don Andrea ha una barba ben rasata e i capelli neri, ci ride su.
Ma quando ricorda la fine del primo amore il sorriso si spegne: «Quando
fui ordinato prete, cominciarono a venirmi i sensi di colpa e
decisi di farla finita, fu una sofferenza terribile, studio e
castità, studio, preghiera e nient’altro. Stavo a Roma, a
studiare teologia, cominciai a confessare la domenica in una
chiesa del centro. Confessavo anche gli omosessuali, cercavo di
spiegare la dottrina ma ogni volta mi dicevo che non la
condividevo». Ed ecco una nuova svolta, il rifiuto definitivo: «Più
studiavo i Testi Sacri, più pensavo: ma non c’è niente di
male, nell’amare un’altra persona. A un certo punto mi sono
detto non posso rinunciare a me stesso, non devo...». Don Andrea
racconta le serate con i confratelli nei locali gay della
capitale, in semiclandestinità: «Una sera scoprimmo che negli
altri tavoli c’erano molti preti. Uno di noi disse: la prossima
volta prendiamo il breviario e recitiamo compieta. Ricordo che
uno, vedendoci, scappò via di corsa, ora insegna diritto canonico».
Nel caffè al centro di Milano, dove il sacerdote racconta senza
troppi pudori la propria vita sentimentale, arriva il suo giovane
compagno, che arrossisce quando don Andrea gli dice: «Ma come,
non mi dai neanche un bacino?». Il progetto è di lasciare la
Chiesa appena Giorgio ha terminato gli studi: «Non ce la faccio
più, ringrazio Dio di avermi fatto vivere le esperienze che ho
vissuto e di avermi fatto incontrare le persone che ho incontrato.
Ma oggi, un po’ di imbarazzo lo sento, quando confesso i peccati
del sesso: quelle persone cercano qualcuno che li richiami alla
dottrina, e parlando con loro io provo un sentimento non dico di
compassione ma di tristezza nel vedere quanto soffrono senza un
reale motivo. E allora cerco di far capire...». Con quali parole?
«Cerco di far capire che la dottrina non è tutto, segnalo dei
siti internet su cui informarsi, consiglio di parlarne con gli
altri e il più delle volte vanno via contenti con qualche idea in
più su cui riflettere. Distinguo sempre tra dottrina ufficiale e
questioni bibliche, dico che è in gioco la loro vita».
Dunque, viste le contraddizioni e i rovelli, perché non
abbandonare subito la Chiesa? «Devo maturare l’uscita, per il
momento poi non potrei rinunciare a quel milione e mezzo circa di
vecchie lire che guadagno con l’insegnamento e le funzioni, ma
appena Giorgio avrà un lavoro... Non posso rinunciare a me
stesso, non posso rinunciare a dar seguito a questo amore». Ora
don Andrea vive in un appartamentino modesto, dice messa quasi
tutti i giorni, svolge attività pastorali con gruppi di giovani,
insegna teologia ed è molto apprezzato dai superiori («se
sapessero, cadrebbero dalle nuvole...»). Il fatto è che mentre
ai superiori è costretto a nascondere il suo «orientamento
sessuale» e la sua vita intima, agli amici del gruppo Arcigay,
che frequenta ogni settimana, è costretto a nascondere il fatto
di essere sacerdote: «Altrimenti mi riempiono di insulti...».
Due identità separate che non possono continuare a coesistere: «Io
mi sento vivo, certe volte mi pare di avere 23-24 anni, mi volano
i giorni e sono felice. Però mi rendo conto che la vita del prete
oggi, purtroppo è inconciliabile con la vita di coppia, dunque si
pone una scelta. Fra qualche anno farò la valigia me ne andrò».
Basta fare una valigia? «Le procedure per lasciare l’abito
talare non sono di mia competenza, verranno fatte delle indagini
dalle gerarchie, ma non me ne importa niente, loro hanno creato
tutta ’sta baracca giuridico-teologica e loro se la sbrigano».
A giudicare dallo sguardo e dal sorriso, don Andrea sembra davvero
felice, parla, si agita, mostra fotocopie di articoli sulla castità
e l’omosessualità, cerca di confutare le tesi ufficiali: «L’omosessualità
non è una malattia, anche se fa comodo alla Chiesa pensare che lo
sia, è rassicurante. Certo, è vero che molti sacerdoti passano
da una depressione all’altra, anche quando sono iperattivi
spesso ricadono nell’angoscia perché non riescono ad accettarsi
per quello che sono, c’è gente che va nelle saune a fare sesso
o semplicemente guarda un film con un bell’attore e che il
giorno dopo è distrutta dal senso di colpa. Quella sì che è una
malattia». Il fatto è che per lo più l’omosessualità viene
giudicata, a differenza dell’eterosessualità, come «un
orientamento che ti porta a peccare: il problema dovrebbe essere
non l’omosessualità ma la castità. Dal ’68 la Chiesa si è
messa nel sacco dal punto di vista della ricerca teologica,
mettendo insieme il significato unitivo e quello procreativo e non
ne uscirà più finché non negherà tutto». E come fa a negare
tutto? «Riconoscendo che la sessualità in generale è qualcosa
di bello e di buono: bonum diffusivum sui , il bene
diffonde se stesso, è contagioso... E poi non si capisce perché
l’omosessuale dovrebbe essere "intrinsecamente
disordinato", come dicono: queste parole pesano come macigni.
Ma in fondo anche una piccola bugia è intrinsecamente
disordinata... Ora, dopo aver tanto studiato, ho la consapevolezza
che non c’è peccato nell’amore. E se la Chiesa non vuol
prenderne atto, pazienza: io ho deciso di vivere pienamente quello
che sono perché non voglio rifiutare la benedizione del Signore».
Tratto
da "Corriere della Sera" 23 novembre 2002
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