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Cari pacifisti, anche
le armi possono fermare i massacri
Adriano
Sofri
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- CARO Gino Strada, voglio litigare con te, di brutto. Sarebbe
meglio farlo di persona, nel Panshir, magari a Pinerolo: peccato.
Ma tu sarai così generoso da litigare senza scrupoli, come se
fossimo tutti e due a piede libero, in un autogrill. Comincerò
con l'elogio dello sminatore, che in questo momento storico è il
mio eroe. Ne ho appena visto uno in tv, militare di professione,
ora smina da volontario coi miei amici di InterSos in Afghanistan.
Ne conobbi altri. Una giovane donna, in Bosnia - là si chiama
diverzant, lo sminatore - mutilata, temeraria. Voleva salvare
vite, dicevano di lei che volesse morire. Ho sentito dire di
campioni dello sminamento, che erano stati in passato collocatori
di mine: gente che tornava sui suoi passi, come dovrebbe fare
l'umanità intera. Fin qui siamo d'accordo, anzi, tante cose le ho
imparate da te. Ora lo sminatore - la sminatrice volontaria - è
dunque il mio eroe: tuttavia bisogna che qualcuno si occupi della
questione generale, di mettere al bando le mine, la produzione, lo
smercio, l'impiego eccetera.
Proprio tu ti impegnasti in questa campagna generale. Si striscia
a disinnescare o a far brillare una mina dietro l'altra, per
milioni e milioni di mine; si cura un mutilato dopo l'altro, si
fabbrica una protesi su misura dietro l'altra - ma bisogna pure
provare a interrompere, almeno a ridurre, la guerra, posatrice di
mine e avida di mutilazioni. Tu curi la gente, e quanto alla
questione generale, la guerra, che aborrisci, ti affidi
all'educazione alla pace. Fra la mirabile cura chirurgica delle
vittime di ogni colore, e un'umanità ricreata dall'educazione
alla pace, c'è, a esser molto ottimisti, un enorme intervallo. È
su questo intervallo che voglio litigare.
Nella guerra, le guerre, afgane, più lunghe di quella di Troia,
tu curavi la gente: ti chiedevi chi e come potesse far finire la
guerra? (Non è una domanda retorica: non lo so davvero. Non lo
ricavo neanche dal tuo bel libro: "Buskashi"). Non era
certo affar tuo; forse credi che nessuno possa far niente per far
finire le guerre, e che si possa solo curare, operare, sminare. Il
problema nasce quando qualcuno prova a far finire la guerra. In
Afghanistan non ci ha provato nessuno, a lungo: l'hanno combattuta
ed eccitata, ognuno dalla sua parte, ogni potenza dalla sua parte,
finché una specie di stallo ha consegnato gran parte del paese al
truce fanatismo Taliban. Stato-non Stato, tirannide brutale contro
donne e bambini, territorio infeudato a un'Internazionale del
terrore.
Bisognava o no che qualcuno si ponesse il problema di metter fine
alla tirannia dei Taliban? Di strappare la frusta dalle mani degli
squadristi? Prima dell'11 settembre, anni prima, io battevo le
mani al lavoro afgano tuo e dei tuoi, e del dottor Cairo, e
pensavo che la comunità internazionale dovesse intervenire a
riportare le condizioni minime della convivenza civile in quel
paese. Non sapevo come; condivisi l'illusione che Shah Massoud
fosse il leader da sostenere. Massoud venne in Europa a chiedere
aiuto, ignorato. Non era l'eroe senza macchia, benché fosse un
eroe. Pensavo che la condizione delle donne equivalesse a uno
smisurato campo di concentramento e di torture. Che si fosse nel
caso in cui guerra e oppressione non sono state prevenute, e c'è
bisogno urgente di soccorso. È così nella cura per la salute e
la medicina, no? C'è un'educazione alla salute, c'è una medicina
preventiva, c'è, quando si sia a quel punto, il ricorso alla
chirurgia. Le persone possono trovarvisi, che abbiano
gozzovigliato o seguito una dieta salutista, che si siano educate
alla prevenzione o che abbiano creduto all'omeopatia: e però
ormai devono affidarsi al chirurgo. E i paesi, i popoli? Nel tuo
Afghanistan non successe niente.
Non gliene fregava niente a quasi nessuno. Poi c'è stato il 9
settembre, l'assassinio di Massoud, e poi l'11 settembre.
L'amministrazione americana - e la coalizione adunata attorno a
lei col mandato dell'Onu - ha additato in Al Qaeda (che l'ha
rivendicato) l'autrice dell'assalto a Manhattan e a Washington, ha
preteso la consegna di Bin Laden, è intervenuta militarmente
contro l'Afghanistan del mullah Omar. Ogni volta che si ricorre
alla forza, tu dici, le vittime sono i civili innocenti. Ma in
Afghanistan da anni e anni i civili innocenti erano vittime di
guerre. Tu lo sapevi meglio di chiunque: li ricoveravi, li
operavi. Nell'Afghanistan del dopo 11 settembre, non-Stato escluso
dall'Onu, infeudato ad Al Qaeda, bisognava intervenire? Bisognava
impegnare le proprie energie perché il modo di intervenire fosse
il più rispettoso della vita e della dignità umana, o opporglisi
comunque come a un'infamia bellicista?
Credo questo: si può fare obiezione a qualunque decisione che,
anche col proposito di salvare vite umane in numero ingente,
sacrifichi la vita di innocenti, fosse pure un solo innocente.
Questa obiezione di coscienza può segnare insuperabilmente il
convincimento morale di un singolo individuo. Non quello di un
responsabile pubblico, un militare o uno statista. Un responsabile
pubblico misura relativamente la sua morale, che, per essere
relativa, non è meno rigorosa. Non si illude di escludere in
assoluto il sacrificio di vittime innocenti, ma vuole ridurne al
minimo il rischio. Non ammazza né tortura prigionieri, anche i più
colpevoli. Rifiuta, in Palestina, di far esplodere una vettura
sulla quale, con un pericoloso capo terrorista, viaggiano persone
innocenti, e dei bambini. Non ammette che, in nome del pericolo
probabile ma futuro, si sacrifichino oggi degli innocenti.
Apprezza l'incolumità della gente del "nemico" come
quella della propria gente.
Questo era il problema imposto dall'intervento in Afghanistan, e
in qualunque altro luogo del mondo. Opporsi in assoluto a ogni
ricorso internazionale alla forza equivale esattamente a negare
l'esistenza di una polizia entro i confini di uno Stato. Solo il
pregiudizio, e l'abitudine, impediscono ancora di vederlo.
L'intervento in Afghanistan è avvenuto. È costato lutti
evitabili e delitti cercati, ai civili e ai combattenti. Ti
domando: i civili colpiti oggi in Afghanistan sono più numerosi o
molto meno? Gli arti mutilati sono più o meno? Le mine collocate
sono più o meno? Si mettono nuove mine o si smina? Le frustate
alle donne sono più o meno?
È vero, secondo una quantità di fonti attendibili, che la
maggioranza delle donne indossa ancora il burqa. A Herat, è stato
ripristinato l'obbligo. A Kandahar, lo portano pressoché tutte. A
Kabul sono numerose quelle che se ne sono sbarazzate. Ti domando:
quelle che possono scegliere di non indossarlo sono molte di più
o no? Tu sei arrivato a dire che le uniche donne senza burqa sono
pagate dai fotografi occidentali! Affermazione enorme, se fosse
vera, e degna di verifica. Intuisco quanto ti stia a cuore quel
paese. Ma allora: perché la - precaria, difettosa, mediocre -
liberazione di Kabul non viene festeggiata con le lacrime agli
occhi da te e da tutti noi? Perché nelle cose che dici e
nell'espressione del tuo viso, al contrario, sembra di leggere un
rammarico? Un rimpianto per la Kabul com'era? Perché il ritorno
di due milioni e passa di profughi in Afghanistan non viene
salutato con le lacrime agli occhi?
Non smetto di chiedere perché i convinti pacifisti che non
mossero un dito per liberare Sarajevo dall'assedio (il più lungo
della storia moderna, più che a Leningrado) e dallo stillicidio
delle bombe e dei cecchini, e anzi proclamarono la loro
opposizione attiva a un intervento militare internazionale che
sbloccasse l'assedio, e profetizzarono lo scoppio della Terza
Guerra Mondiale, quando quell'intervento avvenne, con gli aerei
della Nato, e in pochi giorni, e senza vittime innocenti, sbloccò
l'assedio e liberò Sarajevo, non festeggiarono con le lacrime
agli occhi? Non era la pace, si sapeva, lo sapevo: era solo
(solo!) la fine del massacro quotidiano. L'interruzione del
massacro, vegliata, ancora oggi, dalla polizia internazionale.
Sono innumerevoli i posti della terra in cui si può pregare per
la pace, ma per interrompere i massacri occorre mettere in campo
una forza armata internazionale, e tenercela. E magari farle
patrocinare libere elezioni, come a Timor est.
Sono contrario alla guerra minacciata contro l'Iraq e alla sua
filosofia, e spaventato dalla sua ignota modalità. Ma mi sembra
pazzesca l'assimilazione fra Saddam Hussein e Bush, che tu
proclami a muso duro. Pazzesca l'indifferenza alla democrazia, per
formale e imperfetta e violata che sia. Alla distanza fra governi
eletti a suffragio universale e sanguinarie dittature
assirobabilonesi. So darmene solo una, ma inadeguatissima,
spiegazione. Io credo che la - brutta, difettosa, violata -
democrazia debba essere la condizione della convivenza civile in
ogni parte del globo.
Tu forse pensi - come certi etnologi relativisti che non sono
ancora tornati a casa, come i leader cinesi, come i capi tribali
patriarcali, come i fedeli della sharia - che la democrazia sia il
pregio o il tic di un pezzetto di mondo, e sia fuori posto e
disadatta a tanta altra parte del globo. Non riesco a
capacitarmene, e mi spaventa. Mi spaventano le persone che mi sono
care, note e ignote, che ripetono generosamente di essere sempre e
comunque contro l'impiego della forza. Si sono dimenticate di
Auschwitz, e non hanno voluto imparare dov'è Srebrenica, e che
cosa è successo, e quando.
Tratto da La Repubblica, 15 ottobre 2002
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