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Edward M. Kennedy
Senatore democratico
Il
dibattito sull’attacco all’Iraq è diventata una questione di vita
o di morte, troppo importante per essere lasciata alla politica.
Non sono d’accordo con chi suggerisce che questa
impostazione non possa essere contestata vigorosamente e pubblicamente
in tutta l’America.
Quando sono i figli e le figlie di questa nazione
a rischiare di perdere la vita, la gente deve parlare ed essere
ascoltata. C’è tuttavia una differenza fra onesto dialogo pubblico
e appelli di parte.
Ci sono repubblicani e democratici che sostengono
l’uso immediato della forza, ma anche altri che hanno sollevato
dubbi e dissentito.
In questi gravi tempi per l’America nessuno
dovrebbe avvelenare il dibattito pubblico mettendo in dubbio il
patriottismo dei rivali o aggredendo chi fa proposte diverse con
l’accusa di essere più interessato alla causa della politica che
alle proprie tesi.
Io respingo queste accuse. Tutti dovremmo farlo.
E’ possibile amare l’America pur concludendo
che non è saggio, ora, andare in guerra.
Il principio che ci deve guidare è
particolarmente chiaro quando ci sono vite in gioco: dobbiamo
domandarci che cosa sia giusto per il paese, non per il proprio
partito.
Sono convinto che usare la forza contro l’Iraq
prima di sperimentare altri mezzi metterà a dura prova l’integrità
e l’efficacia della coalizione internazionale che ora combatte con
noi il terrorismo.
A un anno dall’avvio della campagna contro Al
Qaeda, l’Amministrazione devia concentrazioni, risorse ed energie
verso l’Iraq.
Questo cambiamento di priorità si verifica prima
che sia stata del tutto eliminata la minaccia di Al Qaeda, prima che
si sappia se Osama bin Laden è vivo o morto e prima che ci sia la
certezza di un consolidamento d’autorità del governo post-taleban
in Afghanistan.
Nessuno dubita che l’America abbia duraturi e
importanti interessi nel Golfo, o che il regime di Saddam Hussein
rappresenti un grave pericolo, che egli sia un tiranno e che la sua
ricerca di armi mortali di distruzione di massa non possa essere
tollerata. Saddam deve essere disarmato.
Ma come possiamo raggiungere questo obiettivo
minimizzando i rischi per il nostro paese? Come possiamo ignorare i
pericoli per i nostri ragazzi in divisa, il nostro alleato Israele, la
stabilità regionale, la comunità internazionale, la vittoria contro
il terrorismo?
C’è chiaramente una minaccia dall’Iraq, ma
l’Amministrazione non ha dimostrato in modo convincente che siamo di
fronte a una minaccia imminente per la nostra sicurezza nazionale e
che un attacco americano unilaterale e preventivo, quindi una guerra
immediata, sia necessario.
Quando quarant’anni fa si scoprirono missili a
Cuba - missili molto più pericolosi per noi di quelli che Saddam ha
oggi - alcuni esponenti al più alto livello di governo spinsero per
un immediato attacco unilaterale.
Invece gli Stati Uniti portarono il loro caso
all’Onu, ottennero il sostegno dell’Organizzazione degli Stati
americani e conquistarono persino i nostri alleati più scettici.
Imponemmo un blocco, esigemmo un’ispezione e insistemmo
sull’eliminazione dei missili.
Quando il Presidente di allora illustrò quella
scelta agli americani e al mondo, ne parlò in termini realistici: non
nel senso che il primo passo sarebbe stato necessariamente il passo
finale, ma con la certezza che si dovesse provare.
Come disse allora, «è necessario agire... e
queste azioni possono essere solo l’inizio. Non correremo
prematuramente e senza necessità il rischio di una guerra, ma neppure
lo eviteremo se in qualsiasi momento lo dovessimo affrontare».
Nel 2002 anche noi possiamo e dobbiamo essere
risoluti e misurati. Ora, per l’Iraq, costruiamo un sostegno
internazionale, tentiamo con le Nazioni Unite, perseguiamo il disarmo
prima di ricorrere al conflitto armato.
Tratto da "La Stampa" 28
settembre 2002
Perché
non esistono le guerre necessarie
Gino Strada
Caro direttore, ieri Miriam Mafai scriveva su La Repubblica: "E
tuttavia c'è qualcosa che non mi convince in quell'appello, che io non
firmerò". L'appello in questione è quello di Emergency,
"Fuori l'Italia dalla guerra" (www.emergency.it). Sarebbe
utile discuterne a fondo, prima di passare alle "dichiarazioni di
firma", perché Miriam Mafai, per la quale ho stima e rispetto,
espone ragioni molto serie e opinioni diffuse sulla guerra e sulla pace.
"Non mi convince il pacifismo assoluto, di tipo ideologico che lo
ispira".
Non credo sia così, almeno per quanto riguarda Emergency: la scelta
della non violenza e della pace deriva, al contrario, dall'aver avuto a
che fare, negli otto anni di vita della associazione, con più di
trecentomila vittime di guerra che abbiamo operato, curato, conosciuto.
Non dall'ideologia, ma dal vedere sui tavoli operatori dei nostri
ospedali migliaia di esseri umani straziati da bombe e mine il trenta
per cento bambini - nasce il nostro rifiuto e disgusto per la guerra.
Siamo convinti, perché lo vediamo ogni giorno, che le vittime siano la
prima e forse l'unica verità della guerra, e che l'alternarsi di
governi e dittatori ne siano soltanto, questi sì, effetti collaterali.
"La libertà di cui godiamo è nata dal bagno di sangue che si è
consumato attorno a Stalingrado e sulle spiagge di Normandia", ha
scritto Miriam Mafai. È vero, è andata così. Ma è indispensabile che
quel bagno di sangue non si ripeta, perché ci lascia molto amaro in
bocca, per usare un eufemismo, una libertà conquistata e goduta al
prezzo di milioni di morti.
Il mondo non è più lo stesso dopo l'11 settembre, si sente ripetere da
molte parti. Il mondo e la guerra sono cambiati ben prima. Il 6 agosto
1945, il fungo atomico su Hiroshima ha fatto svanire centomila esseri
umani in un minuto e ne ha uccisi molti di più nei decenni successivi.
E' stato allora, nello stesso periodo in cui in Europa le città
venivano rase al suolo dai bombardamenti e si consumava l'Olocausto, che
il mondo e la guerra sono cambiati per sempre.
Per quanto mi sforzi di trovare altre parole per definire quel momento,
una sola mi ritorna in mente, mi pare adeguata: terrorismo. Da allora,
tutte le guerre hanno assunto sempre più un carattere terrorista.
Tremila esseri umani, tra le macerie del World Trade Center, hanno
tragicamente sperimentato un atto di terrore. Prima di loro, altri
milioni di esseri umani per il 90 per cento civili ne avevano
sperimentati altri, ciascuno il suo.
Chi è stato bombardato, chi bruciato dal napalm o soffocato dai gas,
chi è finito nei gulag o nei campi di sterminio, chi è stato fatto a
pezzi da un'autobomba e chi è sparito senza lasciare traccia. Nella
lista infinita delle vittime del terrorismo ci sono anche lo capiamo
bene, se pensiamo a loro come se fossero figli nostri anche le centinaia
di migliaia di bambini iracheni uccisi dall'embargo nell'ultimo
decennio. Il negare loro la possibilità di essere curati non
permettendo l'arrivo di medicinali è stato, ne siamo convinti, un atto
di terrorismo.
"Non mi convince in primo luogo il discorso di che mette sullo
stesso piano Bin Laden e Bush". Mi sembra una semplificazione ad
effetto, e nulla ha a che vedere con il testo dell'appello di Emergency.
Ma forse è il caso di fare una precisazione. Resto convinto che le
vittime, cioè gli esseri umani morti e mutilati, non si possano
dividere in cittadini di prima e di seconda categoria. Credo che un
bambino che sparisce nelle Torri Gemelle valga quanto un bambino afgano
che resta ucciso sotto le bombe. Non vale di meno, ma neanche di più. E
siccome quei bambini mi interessano, entrambi, ho anche la stessa
opinione su chi li ha fatti fuori, l'uno e l'altro.
"Un pacifismo assoluto (...) se può essere proposto come valore da
uomini di Chiesa, può non reggere alla dura prova della politica".
Questo, mi sembra, è un altro punto importante della discussione. Mi
verrebbe da dire, da laico quale sono, che forse è proprio il fatto che
i valori e l'etica siano andati da una parte e la politica da
tutt'altra, la causa prima del mondo ingiusto e violento che è davanti
ai nostri occhi, un mondo dove per molti è "11 settembre"
tutto l'anno.
La tesi della "guerra necessaria" per porre fine a feroci
dittature è anche la critica più comune al movimento per la pace.
Anche di ciò si dovrebbe discutere a lungo. Può darsi che il movimento
per la pace non sia in grado di far cadere un dittatore, ma una cosa è
assolutamente certa, che il movimento per la pace non ne ha mai creati né
aiutati ad imporsi con armi e fiumi di denaro. Mi piacerebbe, e non
credo di essere il solo, che ci fosse un ampio dibattito su questi temi,
ed è una della ragioni dell'appello di Emergency e delle iniziative che
prenderemo nei prossimi mesi.
Senza dimenticare tuttavia, quando si scrive di "guerre
necessarie" e si fanno paralleli storici, che ci troviamo una nuova
guerra all'orizzonte, oggi, contro l'Iraq. E che la nuova guerra, più
che di libertà, ha una maledetta puzza di petrolio.
Tratto da "La Repubblica" 26 settembre 2002
Il
disarmante dossier di Scott Ritter
Tommaso Di Francesco
Scott Ritter è un ufficiale dei
marines che, per sette anni, ha partecipato alla missione di disarmo in
Iraq come ispettore Onu. Fervente repubblicano, ha votato per Bush ma
oggi pubblica un libro-intervista in cui smonta la costruzione
mitologica occidentale sulle armi di distruzione di massa in possesso di
Baghdad.
Passo dopo passo, annuncio dopo annuncio, il mondo
sta entrando nell'avventura della guerra all'Iraq che il presidente
statunitense George W. Bush e l'alleato-maggiordomo Tony Blair vogliono
ad ogni costo. Stavolta non ci sarà nemmeno la bugia della «guerra
umanitaria», sarà una guerra-guerra, tout court, anzi sarà
preventiva. Anche se non mancheranno le motivazioni che ci spiegheranno
- già hanno cominciato a farlo - che l'azione armata alla fine è
servita proprio per «prevenire» un disastro all'umanità di fronte ad
armi di distruzione di massa. Diranno tante cose. Ma il punto è che
ogni guerra per essere tale ha bisogno, da parte del potere, di trovare
una sua giustificazione, per essere narrata e trovare la sua
legittimazione. Insomma, stavolta quale sarà la «Rambouillet»
irachena, il casus belli utile a scatenare l'inferno? Non l'hanno ancora
trovata, ma in queste ore si sta delineando. Ci dice infatti il
Dipartimento di Stato Usa che Stati uniti e Gran Bretagna hanno definito
la risoluzione dell'Onu da imporre all'Iraq, tale che dovrebbe
convincere i recalcitranti che non vogliono questa guerra - i più - e
tale da zittire la disponibilità del regime di Saddam Hussein che ha
risposto, di fronte ai tanti dossier e rivelazioni, che era disposta,
senza condizioni, al ritorno degli ispettori dell'Onu su tutto il
territorio del paese. In buona sostanza si prepara una Risoluzione «forte»
al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite come voleva Bush, scritta
da Blair, che impone a Baghdad la presenza degli ispettori non nei soli
siti sospettati di ospitare armi di distruzione di massa, ma ovunque,
soprattutto nelle sedi politiche del regime, il parlamento e i
ministeri, il palazzo presidenziale compreso. Aggiungeranno magari che,
stavolta, gli ispettori, dovranno essere «protetti» da una missione
internazionale armata. Condizioni, come si vede, fatte apposta per
portare al fallimento della mediazione del segretario dell'Onu, Kofi
Annan, che ha accettato la disponibilità di Baghdad - che chiede la
presa in considerazione del problema della fine delle devastanti
sanzioni che durano da dieci anni - e che ha attivato da subito gli
ispettori guidati dal capo missione Hans Blix che si dichiara pronto a
partire. Questi i fatti, fin qui. Tenendo presente che l'intera
costruzione si regge sulle dichiarazioni di Bush e Blair che chiedono
l'autorizzazione a fare la guerra per «disarmare» l'Iraq che
possiederebbe «armi bateriologiche e chimiche, armi di distruzione di
massa pronte ad essere usate in 45 minuti contro Israele e Cipro» e «l'arma
atomica tra pochi mesi». E si aggiunge in queste ore, richiamando la
memoria ancora ferita dell'11 settembre, che «Saddam ha dato le armi
chimiche ad Al Qaeda», smentendo le smentite su questo fatte solo poche
ore prima. Baghdad corre a rispondere aprendo alla stampa internazionale
i «siti» considerati letali e chiedendo l'arrivo degli ispettori al più
presto, ma non basta e non servirà a nulla. Blair ha presentato un «dossier».
Non convince nessuno, ma per la guerra può bastare, e per l'immaginario
televisivo basta e avanza per dire che ci sono le prove.
Ci vorrebbe a questo punto qualcuno, davvero autorevole, capace di
smontare la costruzione mitologica occidentale sulle «armi di
distruzione di massa» in possesso di Baghdad. Questo qualcuno c'è. Si
chiama Scott Ritter, ufficiale statunitense eroe dei marines, che ha
partecipato per sette anni alla missione di disarmo in qualità di
ispettore Onu e perdipiù è un fervente repubblicano che ha votato per
Bush alle ultime presidenziali.. Scott Ritter ha pubblicato in questi
giorni un libro-intervista Guerra all'Iraq straordinario quanto
decisivo, uscito in contemporanea in Italia, dov'è stato pubblicato da
Fazi Editore (10 Euro, pp. 115) e negli Stati uniti, curato dal noto
commentatore e saggista americano William Rivers Pitt. Un libro che, da
questo punto di vista, davvero è il «controdossier» che andrebbe
letto nei parlamenti occidentali. Che cosa dice di talmente eccezionale
l'ex funzionario-ispettore Onu dal 1991 al 1997 Semplicemente questo: «Se
io dovessi quantificare la minaccia rappresentata dall'Iraq in termini
di armi di distruzione di massa, essa equivale a zero». E la sostanza
di questa affermazione non l'ha solo scritta nelle risposte di questo
libro, o in decine di interviste e articoli che ha pubblicato in questo
ultimo periodo. No, ha fatto di più. In aperto conflitto con il «suo»
governo, è andato a Baghdad in queste settimane per accompagnare i
giornalisti della stampa internazionale a visitare i presunti «siti di
armi di distruzione di massa», che altro non sono che fabbriche civili
o macerie, residuo del buon lavoro di controllo e distruzione fatto
proprio dagli ispettori Onu. Una denuncia così fastidiosa da meritare
la risposta stizzita perfino del segretario di stato Usa Colin Powell.
Un libro bomba, è il caso di dire. Fin dall'esergo iniziale che cita
Karl Kraus: «Come si governa il mondo per condurlo alla guerra? I
diplomatici dicono bugie ai giornalisti e poi, una volta che le vedono
pubblicate, ci credono». E l'America, scrive nell'introduzione William
Rivers Pitt, dopo l'11 settembre appare propensa a credere e ad
apprezzare ogni contrapposizione tra bene e male, tuttaltro che
tranquilla all'idea che qualcuno abbia armi di distruzione di massa e
che queste possano arrivare ai terroristi di Al Qaeda di bin Laden.
Inoltre Saddam Hussein è stato così demonizzato, ancora di più dopo
la prima guerra del Golfo, con il paragone tra lui e Hitler, che si
ritiene ci siano motivi più che sufficienti per una sua deposizione.
Tuttavia ancora non è chiaro perché sia necessaria questa guerra. E
non è chiaro chi sia Saddam Hussein, mentre tutti o quasi sanno ormai
che Osama bin Laden era nel libro paga della Cia quando organizzava la
resistenza islamica all'occupazione militare sovietica dell'Afghanistan
e che i talebani erano alleati, anche d'affari, del Pakistan,
dell'Arabia saudita e degli Stati uniti fino a un mese prima dell'11
settembre e con loro trattavano il nuovo oleodotto del consorzio
angloamericano Unocal, ora realizzato a «fine» guerra da Hamid Karzai,
neopresidente afghano, ex consulente dell'Unocal e assai probabilmente
agente della Cia.
Il fatto è, spiega bene il libro, che anche Saddam Hussein è una
creatura americana: «E' un mostro, sì, ma il `nostro' mostro, è una
creazione americana come la Coca Cola e l'Oldsmobil». E' stato il
governo americano del presidente Ronald Reagan ad appoggiare e ad armare
il suo regime, ferocemente impegnato contro il fondamentalismo islamico
interno e iraniano, fin dall'inizio degli anni Ottanta - nell'82 l'Iraq
venne cancellato dalla lista dei paesi terroristi - per contrastare
l'influenza sovietica nella regione, e ad armarlo ancora di più durante
la guerra con l'Iran, guerra in cui ha usato sul campo di battaglia armi
chimiche fornite proprio dallo stato maggiore americano, guerra
sostenuta attivamente dall'intelligence Usa che pianificò battaglie,
attacchi aerei e danni dei bombardamenti. Una guerra costata due milioni
di morti. Come dettagliatamente resocontato nell'agosto del 2002 dal New
York Times che ha pubblicato dettagliate e controfirmate
dichiarazioni di alti ufficiali Usa coinvolti nella politica di aiuti
militari all'Iraq durante l'Amministrazione Usa: l'America sapeva che
Saddam Hussein usava armi chimiche contro l'Iran, ma continuava a
fornirgli armi e assistenza. L'America chiudeva tutti e due gli occhi
sugli effetti devastanti di quel riarmo, chimico, batteriologico,
nucleare visto che l'avvio di nucleare iracheno era stato bombardato nel
1981 dall'altro «mostro» americano nell'area, vale a dire Israele con
il suo potenziale bellico e atomico (200 testate, ma clandestine). Una
conoscenza delle armi di Saddam Hussein che sarebbe tornata utile nei
bombardamenti chirurgici della prima guerra del Golfo: uno scherzo per i
bombardieri di precisione americani, visto che i siti erano nei cassetti
dello stato maggiore Usa che li aveva costruiti. Non uno scherzo per i
100.000 militari occidentali contaminati dalla Sindrome del Golfo,
quella che ora tutti dimenticano.
E inolte, vorremmo ricordare noi, quale America gridava allo sterminio
quando, nel 1984, Saddam Hussein massacrava i comunisti iracheni? E poi
«sempre gli Stati uniti non hanno deposto il regime di Baghdad durante
la guerra del Golfo, e di fatto hanno ostacolato i tentativi di
rovesciare Saddam Hussein compiuti dai ribelli iracheni sollecitati
all'azione dalla nostra retorica» e, aggiungiamo, dalle promesse della
Cia.
Il libro-intervista racconta decine e decine di ispezioni, di indagini
campione di sarin, di scoperte poi dimostratesi di scarso rilievo, delle
menzogne degli iracheni smascherate, del lavoro delle ispezioni a
sorpresa della biologa Diane Seaman e l'affare del codice segreto che
parlava di «Attività biologiche speciali», documento che poi si rivelò
come il testo dei servizi segreti iracheni per la sicurezza personale
del dittatore iracheno, e il mondo fu perfino sull'orlo di una nuova
guerra che poi fu evitata e su cui, mentendo, soffiava - denuncia Scott
Ritter - l'ex capo ispettore Richard Butler pur informato sulla realtà
e inconsistenza dell'affare; e ancora di tensioni per le ispezioni nelle
sedi istituzionali, di approfondimenti in laboratorio, dell'impianto di
fermentazione chimica di Al Hakum fatto esplodere dagli ispettori, del
monitoraggio capillare dal 1994 al 1998 della totalità degli impianti
chimici iracheni. Ispezione dopo ispezione per arrivare alla conclusione
che i bombardamenti e il lavoro di distruzione ha praticamente portato a
zero il grado di pericolosità dell'Iraq quanto ad armi di distruzione
di massa. «Ritengo a questo punto fondamentale un problema di cifre -
risponde Scott Ritter nel libro -. L'Iraq ha distrutto il 90-95% delle
sue armi di distruzione di massa. Dobbiamo ricordare che il restante
5-10% non costituisce necessariamente una minaccia né un programma di
armamento, se non siamo in grado di dire quella percentuale minima che
fine ha fatto, non significa che l'Iraq ne sia ancora in possesso»,
dopo il massiccio embargo e il passaggio degli ispettori.
E i legami con Al Qaeda? E la bomba atomica di Saddam pronta tra pochi
mesi?
Scott Ritter non ha dubbi e definisce la «connessione» con Al Qaeda «una
faccenda palesemente assurda». «Saddam Hussein - ricorda - è un
dittatore laico, ha passato gli ultimi trenta anni a dichiarare guerra
al fondamentalismo islamico, facendolo a pezzi. A parte la guerra
all'Iran degli ayatollah, in Iraq sono in vigore leggi che sentenziano
la pena di morte per il proselitismo in nome del wahabismo, la religione
di Osama bin Laden. Osama odia in modo particolare Saddam, lo chiama
l'apostata, un'accusa che implica la pena di morte». L'unica arma, se
così si può dire, che lega Osama bin Laden e l'Iraq è il fatto che il
leader di Al Qaeda così come reclama la libertà in Palestina condanna
il mondo occidentale per le sanzioni all'Iraq. Perché? «Perché le
sanzioni americane - risponde Scott Ritter - non colpiscono certo Saddam,
colpiscono il popolo iracheno», al quale bin Laden si richiama
profeticamente usando le sanzioni come grido di guerra. Quanto al
nucleare, il libro-intervista rivela che il fondamento di questa accusa
risiede in alcuni fuoriusciti e disertori, Khidre Hamza, funzionario di
medio livello del programma nucleare iracheno, oggi immeritatamente
protagonista di molti programmi-scoop della tv americana, e soprattutto
aiutante di Hussein Kamal genero di Saddam e responsabile della
commissione militare industriale irachena. E' stato Hamza a raccontare e
a costruire con la Cia i dati sul presunto programma nucleare iracheno
attuale, ma lo stesso genero di Saddam, Hussein Kamal, quando disertò
nel 1995, si rifiutò di sottoscrivere e prendere per buoni quei dati
definendoli «un falso grossolano».
Resta un solo interrogativo vero, che William Rivers Pitt prende alla
fine di petto con questa domanda: «Lei è un veterano dei marine, un
ufficiale e un funzionario di intelligence. Ha passato sette anni in
Iraq a rintracciare queste armi per garantire la salvezza e la sicurezza
non solo di questo paese, ma anche del Medio Oriente e del mondo. Eppure
alcuni suoi concittadini la chiamano traditore perché parla così
apertamente di tali argomenti. Come risponde?». «La gente può dire
quello che vuole - risponde secco ma sereno Scott Ritter - ma chi parla
in questo modo non fa che dimostrare la propria ignoranza. Esiste una
cosuccia che si chiama Costituzione degli Stati uniti d'America. Quando
ho indossato l'uniforme dei marines e mi fu affidato l'incarico di
ufficiale ho giurato di essere fedele e di difendere la Costituzione
contro tutti i nemici, esterni e interni. Questo significa che sono
disposto a morire per quel pezzo di carta e per quello che rappresenta.
Quel documento parla di noi come popolo, e di un governo del popolo,
fatto dal popolo, per il popolo, Parla di libertà di parola e di libertà
civili individuali....Il massimo servizio che posso rendere al mio paese
- conclude Scott Ritter - è di facilitare la discussione e il dialogo
sul comportamento da tenere verso l'Iraq...Se quelli che esercitano
pressioni a favore della guerra non sono in grado di provare le proprie
ragioni, l'opinione pubblica americana dovrà esserne consapevole». «Voglio
che l'America non commetta l'errore di questa guerra», ha ripetuto sui
giornali americani in questi giorni. Forse, alla maniera di Scott Ritter,
vale la pena sentirsi un po' «tutti americani».
Tratto da "Il
Manifesto" 28 settembre 2002
Tutte
le ragioni per non seguire Bush
Al Gore
Come la maggior parte degli
americani, mi ha tormentato a lungo l’interrogativo su quel che
dobbiamo fare per difenderci da attentati devastanti e terribili come
quello di un anno fa. E dobbiamo presumere che le forze responsabili di
quell’attacco stiano anche in questo momento progettando un altro
attentato contro di noi.
Credo tuttavia che il nostro Paese, debba seguire una linea di condotta
migliore della politica perseguita attualmente dal presidente Bush. Per
essere chiari, sono molto preoccupato che la linea che stiamo seguendo
rispetto all’Iraq possa seriamente danneggiare la nostra capacità di
vincere la guerra contro il terrorismo e indebolire la nostra capacità
di guidare il mondo nel secolo che ha appena visto la luce.
Per prima cosa, credo che dobbiamo concentrare i nostri sforzi contro
coloro che ci hanno attaccato l’11 settembre e che finora l’hanno
fatta franca. La stragrande maggioranza di quanti hanno finanziato,
progettato e realizzato l'assassinio a sangue freddo di oltre 3000
americani non sono stati né individuati né catturati e, quindi, tanto
meno puniti e resi inermi. Non credo che dovremmo permetterci di
distrarci da questo compito urgente solo perché si sta dimostrando più
difficile e lungo del previsto. Le grandi nazioni perseverano e alla
fine prevalgono. Non passano da un compito non portato a termine ad un
altro. Dobbiamo rimanere concentrati sulla guerra al terrorismo. E sono
convinto che siamo perfettamente capaci di mantenere ferma la barra del
timone nella nostra guerra contro Osama Bin Laden e la sua rete
terroristica prendendo, al contempo, le iniziative necessarie per
costruire una coalizione internazionale che insieme a noi si occupi di
Saddam Hussein al momento giusto. Non dobbiamo permettere che nulla ci
allontani o ci distragga dal compito di vendicare i 3000 americani
assassinati e di smantellare la rete di terroristi che hanno organizzato
gli attentati. Il fatto che non sappiamo dove si trovano non deve far sì
che spostiamo la nostra attenzione su un altro nemico di più facile
localizzazione. Abbiamo altri nemici, ma la nostra priorità deve essere
quella di vincere la guerra contro il terrorismo.
N
on di meno il presidente Bush ci sta dicendo che al momento la cosa più
urgente non consiste nel raddoppiare gli sforzi contro Al Qaeda, nello
stabilizzare la situazione in Afghanistan dopo aver rovesciato il
precedente regime. Ci dice invece che il compito più urgente consiste
nel concentrarci sull’ipotesi di una nuova guerra contro Saddam
Hussein. E il presidente sta proclamando un nuovo diritto, del tutto
americano, all’attacco preventivo contro chiunque possa rappresentare
una potenziale, futura minaccia. Inoltre il presidente sta chiedendo al
Congresso di affermare in tutta fretta che dispone della necessaria
autorità per procedere immediatamente contro l’Iraq e, stando a
quanto detto nella sua risoluzione, contro qualunque altra nazione della
regione senza tener conto dei successivi sviluppi o delle circostanze
che potrebbero crearsi.
Vediamo di essere chiari: non esiste alcuna legge internazionale che
possa impedire agli Stati Uniti di intervenire per proteggere i nostri
interessi vitali quando è manifestamente chiaro che bisogna scegliere
tra la legge e la nostra sopravvivenza. Infatti lo stesso diritto
internazionale riconosce che tali scelte appartengono a tutte le
nazioni. Ritengo tuttavia che tale scelta non riguardi il caso
dell'Iraq. Se dovessimo decidere di procedere, il nostro intervento deve
essere giustificato nel quadro del diritto internazionale e non deve
porsi al di fuori di esso. Infatti sebbene una risoluzione delle Nazioni
Unite possa contribuire a determinare il consenso internazionale, è
chiarissimo che le attuali risoluzioni dell'Onu approvate 11 anni orsono,
sono sufficienti da un punto di vista giuridico nel caso in cui Saddam
Hussein violi gli accordi stipulati alla fine della Guerra del Golfo.
(...)
La guerra al terrorismo richiede un approccio multilaterale. È
impossibile spuntarla contro il terrorismo senza la continua, convinta
collaborazione di molte nazioni. E proprio questo è uno dei miei punti
centrali: la nostra capacità di garantire quel genere di collaborazione
multilaterale nella guerra contro il terrorismo può essere seriamente
minacciata da una eventuale iniziativa unilaterale contro l'Iraq. Se
l’amministrazione ha ragioni di credere che le cose non stiano così,
deve comunicare queste ragioni al Congresso per ottenere l'appoggio ad
una iniziativa che potrebbe danneggiare il più urgente compito di
continuare a distruggere e mantellare la rete internazionale del
terrore.
Nel 1991 fui tra i pochissimi Democratici in Senato a votare a favore di
una risoluzione che approvava la guerra del Golfo e mi sentii tradito
dal frettoloso abbandono del campo di battaglia da parte
dell’amministrazione Bush nel momento in cui Saddam riprendeva le sue
persecuzioni contro i Curdi nel nord e gli Sciiti nel sud, gruppi questi
che, dopo tutto, avevamo incoraggiato a sollevarsi contro Saddam. Ma
guardiamo le differenze tra la risoluzione votata nel 1991 e quella che
nel 2002 questa amministrazione propone al Congresso. Le circostanze
sono completamente diverse.
Nel 1991 l'Iraq aveva varcato un confine internazionale invadendo una
nazione sovrana e annettendone il territorio. Nel 2002 non c'è stata
una tale invasione. Siamo noi che proponiamo di varcare un confine
internazionale. E per quanto giustificato possa essere, dobbiamo
riconoscere che questa profonda differenza di circostanze rispetto al
1991 ha profonde implicazioni sul modo in cui il resto del mondo giudica
il nostro operato e ciò, a sua volta, avrà implicazioni sulla nostra
capacità di portare a termine con successo la guerra al terrorismo.
Saddam è pericoloso per i suoi sforzi tesi ad entrare in possesso di
armi distruzione di massa. Ciò che rende i terroristi molto più
pericolosi che mai è la prospettiva che possano entrare in possesso di
armi di distruzione di massa. Non c'è solamente un paese che sta
tentando di costruire armi di distruzione di massa e non c'è solamente
un gruppo di terroristi. Dobbiamo riconoscere che ci troviamo in
un'epoca completamente nuova e i progressi compiuti dalla tecnologia
della distruzione ci debbono far ragionare in maniera nuova. Come ebbe a
dire Abraham Lincoln: «in presenza di un caso nuovo, dobbiamo pensare
in modo nuovo e in questo modo salveremo il nostro paese».
Un’altra differenza: nel 1991 c'era una risoluzione adottata dalle
Nazioni Unite. Questa volta ci siamo rivolti alle Nazioni Uniti per
ottenere una risoluzione e finora non siamo riusciti ad ottenerla.
Inoltre nel 1991 l'allora presidente Bush con pazienza e abilità mise
insieme una vasta coalizione internazionale. Il suo compito era più
facile di quello che aspetta l'attuale presidente Bush, in parte perché
Saddam aveva invaso un altro paese.
Comunque la si voglia mettere, allora tutte le nazioni arabe, con la
sola eccezione della Giordania - ovviamente visto che la Giordania si
trovava nel cono d'ombra dell'Iraq - appoggiarono il nostro sforzo
militare e entrarono a far parte della coalizione internazionale, tanto
che talune misero a disposizione anche dei soldati. I nostri alleati in
Europa e Asia appoggiarono la coalizione senza eccezioni. Ora, al
contrario, molti nostri alleati in Europa e Asia sono apertamente
contrari a quanto Bush sta facendo. E i pochi che ci appoggiano hanno
condizionato il loro appoggio per lo più all'approvazione di una
risoluzione delle Nazioni Unite.
Quarto: la coalizione messa insieme nel 1991 si accollò tutti gli
ingenti costi della guerra mentre questa volta il costo della guerra
stimabile in centinaia di miliardi di dollari ricadrebbe esclusivamente
sulla spalle dei contribuenti americani.
Quinto: nel 1991 il presidente George H.W. Bush attese di proposito che
fossero passate le elezioni di medio termine del 1990 per ottenere un
voto dal nuovo Congresso nel gennaio del 1991. Il presidente George W.
Bush, al contrario, preme per avere un voto dal Congresso poco prima
delle elezioni.
Non che questo sia in sè sbagliato, ma a mio giudizio fà sì che il
presidente Bush debba chiarire i dubbi che molti hanno manifestato in
ordine al ruolo che la politica dovrebbe svolgere secondo alcuni
esponenti dell'amministrazione. Non sono stato io a sollevare questi
dubbi, ma molti lo hanno fatto. E dal momento che tali dubbi sono stati
sollevati, è diventato un problema per il nostro paese costruire una
coalizione internazionale e ottenere il consenso nazionale. Solo per
citare un esempio, le relazioni tedesco-americane hanno conosciuto una
grave crisi a causa dei discutibili commenti di un ministro del governo
tedesco sulle presunte motivazioni del presidente Bush.
Hanno chiesto scusa e probabilmente possiamo dimenticare l'incidente. Ma
diamo uno sguardo a tutta la campagna elettorale tedesca. Ha rivelato un
profondo e inquietante cambiamento di atteggiamento dell'elettorato
tedesco nei confronti degli Stati Uniti. Vediamo che il nostro più
fedele alleato, Tony Blair - un fantastico leader a mio parere -
comincia a trovarsi in gravi difficoltà con l'elettorato britannico a
causa di dubbi analoghi che sono stati sollevati.
(...)
L'amministrazione, inoltre, non ha detto nulla per chiarire quelle che
sono le sue idee sul dopo-Saddam e sul grado di impegno che gli Stati
Uniti sono pronti ad accettare in Iraq nei mesi e negli anni successivi
ad un mutamento di regime nel paese. La considero una cosa estremamente
negativa in quanto nel periodo immediatamente successivo all'11
settembre, oltre un anno fa, avevamo un enorme riserva di buona volontà
e simpatia e di partecipazione in tutto il mondo. Questo patrimonio è
stato dissipato nel giro di un anno e ora vedo una grande ansia in tutto
il mondo non per quello che potrebbero fare le reti terroristiche, ma
per quello che potremmo fare noi. Tutto questo ha per noi delle
conseguenze. Dissipare tutta quella buona volontà e sostituirla con
l'ansia in un solo anno non è dissimile dall'aver trasformato in un
anno un avanzo di 100 miliardi di dollari in un disavanzo di 200
miliardi di dollari.
Abbiamo assistito all'emergere di una dottrina nuova di zecca chiamata
guerra preventiva, basata sull'idea che nell'era della proliferazione
delle armi di distruzione di massa e sullo sfondo di una sofisticata
minaccia terroristica, gli Stati Uniti non possono aspettare le prove di
una minaccia mortale, ma debbono agire in qualunque momento per tagliare
la testa al toro. Il problema della guerra preventiva è che non serve a
dotare gli Stati Uniti degli strumenti per difenderci dal terrorismo in
generale o dall'Iraq in particolare. Ma questa è una questione
relativamente poco importante rispetto alle conseguenze di piu' lungo
periodo che possono essere determinate da questa dottrina.
Tanto per cominciare la dottrina viene presentata in termini aperti, la
qual cosa vuol dire che l'Iraq può essere il primo caso di
applicazione, ma non necessariamente l'ultimo. Infatti la logica stessa
del concetto suggerisce una serie di impegni militari contro una serie
di Stati sovrani - Siria, Libia, Corea del Nord, Iran - nessuno dei
quali è molto popolare negli Stati Uniti. La conseguenza però è che
la dottrina si applica in tutte quelle circostanze in cui ricorra un
interesse per le armi di distruzione di massa e un ruolo di ospiti di
terroristi o attivi partecipanti alle iniziative terroristiche. Vuol
dire anche che nel caso in cui il Congresso dovesse approvare la
risoluzione sull'Iraq proposta all'amministrazione, creerebbe
simultaneamente un precedente per una guerra preventiva in qualunque
parte del mondo e in qualunque momento in cui questo o qualsiasi altro
futuro presidente decidesse che ne ricorrono le circostanze.
(...)
Ancora più dannoso è l'attacco dell'amministrazione ai fondamentali
diritti costituzionali che come americani dobbiamo avere ed abbiamo. La
stessa idea che un cittadino americano possa essere messo in prigione
senza processo e che lo si possa fare semplicemente in base ad una
asserzione del presidente degli Stati Uniti o di quanti agiscono a suo
nome, è impensabile e non-americana. Ed è una cosa che va fermata.
Riguardo agli altri paesi, il disprezzo dell'amministrazione per le
posizioni degli altri è ben documentato e va rivisto. È più
importante prendere nota delle conseguenze di una strategia nazionale
che va emergendo e che non si limita a celebrare la forza dell'America
ma sembra glorificare il concetto di dominio. È proprio la parola che
va usata sui consiglio dell'amministrazione.
Se ciò che l'America rappresenta nei confronti del mondo è una
leadership in una comunità di uguali, i nostri amici allora sono
legioni. Se ciò che rappresentiamo nei confronti del mondo è un
impero, ad essere una legione sono i nostri nemici.
In questa svolta fatale della nostra storia è vitale vedere chiaramente
chi sono i nostri nemici e capire cosa vogliamo fare con loro. Tuttavia
è anche importante capire che così facendo preserviamo non solo noi
stessi in quanto individui, ma la natura di un popolo devoto allo Stato
di diritto.
Ecco uno degli altri punti che considero importanti: se riusciremo a
vincere rapidamente una guerra contro l'apparato militare di serie D
dell'Iraq e altrettanto rapidamente abbandoneremo quel paese così come
il presidente Bush ha rapidamente abbandonato quasi tutto l'Afghanistan
dopo aver sconfitto un apparato militare di serie E, il caos che farà
seguito ad una vittoria militare in Iraq potrebbe rappresentare per gli
Stati Uniti una minaccia maggiore di quanto non sia quella attuale di
Saddam.
Sappiamo che Saddam ha accumulato scorte segrete di armi biologiche e
chimiche in tutto il paese. Finora non abbiamo le prove che le abbia
fornite a gruppi terroristici. Se l'amministrazione ha queste prove,
faccia il piacere di farcele conoscere in quanto ciò cambierebbe
completamente il nostro modo di valutare l'intera faccenda. Ma se l'Iraq
finisse per assomigliare all'attuale, devastato Afghanistan, privo di
qualsivoglia autorità centrale? Se dopo una guerra contro l'Iraq ci
trovassimo in una situazione simile per essercene lavati le mani? Cosa
ne sarebbe delle riserve di armi biologiche sparse in tutto il paese?
Che succederebbe se membri di Al Qaeda oltrepassassero le frontiere
dell'Irak così come hanno fatto in Afghanistan? L'interrogativo non
sarebbe più: «Saddam Hussein fornirà queste armi ad un gruppo di
terroristi». I gruppi terroristici potrebbero entrare in Iraq a
impadronirsi da soli di queste armi.
Penso che comportandoci con l’Iraq così come abbiamo fatto in
Afghanistan, finiremmo per trovarci in una situazione peggiore di quella
di oggi.
Il testo è tratto da un discorso pronunciato dall’ex
vicepresidente degli Stati Uniti durante una riunione del partito
democratico a San Francisco
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
Tratto da "L'Unità"
26 settembre 2002
"E'
possibile smantellare gli arsenali senza scatenare una guerra" -
Parla l'ex capo degli ispettori ONU in Iraq
Nathan
Gardels
L’Iraq ha accettato le ispezioni, anche - a certe condizioni - nei
siti presidenziali. Secondo un accordo del 1998 queste ispezioni devono
essere annunciate in anticipo e gli ispettori devono essere accompagnati
da diplomatici. Scott Ritter, come ex capo degli ispettori Onu in Iraq
ai tempi di Unscom (la commissione sciolta nel ’98, ndr), lei crede
che a queste condizioni le ispezioni possono essere comunque utili? «Assolutamente
sì. Se fossi io a condurre le nuove ispezioni per prima cosa costruirei
una banca dati con risultati delle ispezioni in questi siti. Poi li
farei sorvegliare dai satelliti 24 ore su 24. E se venisse rilevato
qualche movimento sospetto nei siti già ispezionati, farei tornare gli
ispettori a raccogliere nuovi dati e campioni. Per alcuni anni, quando
il direttore di Unscom era Rolf Ekeus (1991-1997) i palazzi
presidenziali non vennero ispezionati: ci sembrava che, senza una
ragione ben precisa, le ispezioni sarebbero state viste come un attacco
immotivato alla dignità e sovranità dell’Iraq. Nessun rapporto
dell’ intelligence li segnalava come luoghi sospetti.
L’accordo del ’98 permette anche oggi di portare a termine ispezioni
efficaci».
Lei riuscì a ispezionare siti presidenziali grazie a
quell’accordo?
«Annan negoziò un compromesso attraverso il quale, in otto siti
designati da Bagdad, potevano avvenire ispezioni. Eravamo in grado di
entrare, senza restrizioni, ovunque, scortati da diplomatici. Potevamo
entrare nel bagno di Saddam. Ovunque, insomma. Potevamo prendere
campioni da analizzare in seguito, cercare tracce di agenti chimici o
biologici».
Se non è il disarmo della capacità belliche irachene, qual è il
nocciolo della crisi tra Washington e Bagdad?
«Se qui si trattasse soltanto di eliminare quel che rimane degli
arsenali delle armi di distruzioni di massa irachene, allora basterebbe
mandare in Iraq centinaia di ispettori - Saddam è d’accordo - e
chiudere la questione. Se l’Iraq rifiutasse di lasciar lavorare gli
ispettori, allora sì che ci sarebbe motivo di agire militarmente. Ma la
realtà è più preoccupante: la trasformazione degli Stati Uniti in una
potenza imperiale, la realizzazione di una strategia dei
neo-conservatori in preparazione da anni. Basta leggere la strategia per
la sicurezza nazionale presentata da Bush al Congresso il mese scorso.
E’ il frutto del lavoro di gente come Paul Wolfowitz, quelli che
vogliono l’applicazione su scala globale del potere militare e
economico degli Stati Uniti in modo unilaterale. L’Iraq sarà il
laboratorio di questa nuova politica estera americana».
La guerra è inevitabile quindi? E quando comincerà secondo lei?
«Quest’anno, probabilmente in dicembre. I soldati americani in Iraq
dovranno fare cose, in nome del loro Paese, che non credevo sarebbero
stati costretti a fare: macellare civili innocenti».
Tratto
da "Il Corriere della Sera" 7 ottobre 2002
"L'Iraq
ha perso ogni mira espansionistica" - Parla un generale israeliano
Lorenzo
Cremonesi
GERUSALEMME - «Per che cosa combattiamo? Occorre rispondere prima di
iniziare una guerra. Il problema è che l'amministrazione Bush non ha
davvero argomenti solidi per giustificare l'attacco contro Saddam
Hussein» scrive Aharon Levran sul quotidiano israeliano Haaretz .
Un giudizio pesante. Perché Levran è tutto tranne che un pacifista
sceso in campo contro gli Stati Uniti. Brigadiere generale in pensione,
è invece noto per essere un «falco» tra gli esperti israeliani di
cose militari. Autore di un volume sulla strategia militare israeliana
dopo la Guerra del Golfo nel 1991, Levran spiega al Corriere come
mai a suo parere «gli argomenti per un Saddam super armato sono
esagerati».
Gli arsenali iracheni sono davvero tanto pericolosi?
«Il mio punto di vista è che oggi l'Iraq è molto più debole rispetto
agli anni precedenti la guerra del 1991. Il suo esercito non ha nulla a
che vedere con le grida di allarme che arrivano da Washington e Londra.
Saddam è un dittatore pericoloso, sanguinario, il mondo starebbe molto
meglio senza di lui. Ma ha perso le ambizioni espansioniste. E mi
chiedo: perché mai gli Stati Uniti perdono così tanto tempo per questo
dittatore da quattro soldi, quando sulla terra esistono pericoli di gran
lunga maggiori?».
Quali pericoli?
«L'Iran, dove il regime è coinvolto con diversi gruppi terroristici e
i reattori nucleari forniti dalla Russia lo mettono in condizione di
poter costruire armi atomiche entro i prossimi 5 anni».
Ma i missili di Saddam?
«Alla fine del 1998 si stimava avesse 2 o 3 missili Al-Hussein, il
cui raggio è minore di 800 chilometri. Al massimo ora ne avrà una
decina, ma con solo un paio di rampe di lancio. Nel 1991 stava
costruendo il modello di missile Al-Abbas, con un raggio di 900
chilometri. Ma non ci sono prove che sia operativo. Non si costruiscono
missili senza provarli e i satelliti Usa confermano che negli ultimi 11
anni dall'Iraq non ne è mai stato tirato neppure uno. Il suo programma
nucleare è inoltre paralizzato dall’embargo».
I legami di Bagdad con Al Qaeda?
«In 18 anni di studio non ne ho trovato traccia».
E il dossier appena presentato da Tony Blair?
«Vi si parla di 20 missili Al-Hussein. Ma senza portare alcuna
prova. Secondo gli accordi dell’estate 1991 Saddam può costruire
missili tattici con una gittata di 150 chilometri».
Di recente Richard Butler, l'ex capo degli ispettori Onu che sino al
1998 operarono in Iraq, ha dichiarato di temere che Israele in caso di
guerra possa usare l'atomica. E' un'opzione possibile?
«Non credo Butler vada preso troppo sul serio. Nel 1991 affermò
che Saddam avrebbe sparato armi chimiche: fu smentito dai fatti. Ci sono
due possibilità nel caso Saddam lanci uno o più missili su Israele. Se
sono convenzionali, Israele risponde in modo convenzionale. Nel caso
invece siano non convenzionali, ci sono forti possibilità che Israele
risponda in modo non convenzionale. Ma siccome Saddam possiede solo armi
chimiche, anche le armi israeliane saranno al massimo chimiche, escludo
il ricorso all'atomica. Va aggiunto che Israele non potrà rischiare di
colpire le truppe Usa operanti in Iraq».
Però nel 1991 Israele non rispose ai 39 missili sparati contro il
suo territorio dall'Iraq.
«Oggi da noi c'è dibattito. Alcuni esperti affermano che la nostra
risposta deve dipendere dal numero delle vittime, se sono poche (come
nel 1991), alcuni affermano che non si deve rispondere. Io sono però
tra coloro che per motivi di deterrenza e di onore nazionale ritengono
che questa volta dovremo reagire».
Tratto
da "Il Corriere della Sera" 29 settembre 2002
America,
un nuovo inquietante volto
di Jimmy Carter
(ex predisente USA e premio Nobel per la pace)
Cambiamenti
fondamentali stanno avvenendo nelle politiche storiche degli Stati Uniti
concernenti i diritti umani, il nostro ruolo nella comunità delle
nazioni e il processo di pace in Medio Oriente - cambiamenti che
avvengono per lo più senza dibattito (tranne, qualche volta, interno
all´Amministrazione). Alcuni nuovi approcci si sono comprensibilmente
evoluti dalle reazioni rapide e ben argomentate del presidente Bush alla
tragedia dell´11 settembre 2001, ma altre sembrano nascere da un
nocciolo duro di conservatori che tentano di realizzare, con la
copertura della guerra al terrorismo, ambizioni a lungo represse. Un
tempo ammirata quasi universalmente come campione indiscusso dei diritti
umani, adesso l´America è diventata il principale bersaglio di
rispettate organizzazioni internazionali, preoccupate per la violazione
di alcuni principi basilari di vita democratica. Noi abbiamo ignorato o
condonato abusi avvenuti in alcune nazioni che appoggiano i nostri
sforzi anti-terrorismo, e intanto teniamo prigionieri cittadini
americani come «nemici combattenti», li incarceriamo in grande
segretezza e a tempo indeterminato, senza formulare accuse di alcun
crimine e senza riconoscere il diritto all´assistenza legale. Questa
politica è stata condannata dalle Corti federali, ma il Dipartimento di
Giustizia sembra risoluto ad andare avanti per questa strada e la
questione è ancora aperta. Parecchie centinaia di soldati taleban,
catturati in Afghanistan, restano prigionieri nella Base di Guantanamo
in quelle stesse condizioni, con il segretario alla Difesa che dichiara
che non saranno rilasciati neppure se un giorno si scoprisse che sono
innocenti. Queste azioni sono terribilmente simili a quelle di regimi
oltraggiosi, che storicamente sono stati condannati dai presidenti
americani. Mentre il presidente Bush si riserva di esprimere il suo
giudizio, il popolo americano viene inondato quasi ogni giorno da
dichiarazioni del vicepresidente e di altri esponenti della squadra
presidenziale, secondo i quali ci troveremmo davanti a una minaccia
devastante da parte delle armi di distruzione di massa irachene, per
combattere la quale occorre rimuovere Saddam Hussein dal potere, con o
senza l´appoggio degli alleati. Com´è stato vigorosamente
sottolineato da alleati stranieri, da autorevoli leader di ex
Amministrazioni e da funzionari in carica, sugli Stati Uniti non incombe
nessuna minaccia da Baghdad. Di fronte al minuzioso controllo e alla
schiacciante superiorità militare degli Stati Uniti, qualunque mossa
belligerante di Hussein contro un vicino, o il più piccolo test
nucleare (indispensabile prima della costruzione di un´arma atomica), o
la minaccia tangibile di usare un´arma di distruzione di massa e
condividerne la tecnologia con organizzazioni terroristiche, sarebbe una
mossa suicida. E´ invece possibile che armi simili vengano usate, in
risposta a un attacco americano, contro Israele o contro i nostri
uomini. Noi non possiamo ignorare lo sviluppo di armi chimiche,
biologiche o nucleari, ma una guerra unilaterale contro l´Iraq non è
la risposta giusta. Occorre un´azione delle Nazioni Unite per imporre
all´Iraq ispezioni senza restrizioni. Forse intenzionalmente, queste
sono diventate sempre meno probabili a mano a mano che ci alieniamo i
nostri alleati, che pure ci sono necessari. In apparente disaccordo con
il presidente degli Stati Uniti e il suo segretario di Stato, di fatto
il vicepresidente scarta ora questo obiettivo dalla lista delle opzioni
possibili. Abbiamo lanciato un controproducente guanto di sfida al resto
del mondo, sconfessando l´impegno degli Stati Uniti verso accordi
internazionali laboriosamente negoziati. Il rifiuto perentorio di
accordi sulle armi nucleari, sulla convenzione per le armi biologiche,
sulla protezione ambientale, sulle proposte contro le torture e sulla
punizione dei criminali di guerra, qualche volta si è combinato con le
minacce economiche a chi avesse osato dissentire da noi. Queste azioni e
queste asserzioni unilaterali isolano sempre più gli Stati Uniti
proprio dai Paesi che ci servono nella lotta al terrorismo. Il nostro
governo sta anche abbandonando - ed è una tragedia - ogni appoggio ai
fondamentali negoziati tra palestinesi e israeliani. La nostra politica
evidente è quella di appoggiare quasi tutte le azioni israeliane nei
territori occupati e condannare e isolare i palestinesi come obiettivi
generici della nostra guerra al terrorismo, mentre gli insediamenti
ebraici si espandono e le enclaves palestinesi di restringono. Sembra
ancora esserci battaglia all´interno dell´Amministrazione Bush sulla
definizione di una politica chiara sul Medio Oriente. Antichi e chiari
impegni del presidente per onorare le risoluzioni in merito delle
Nazioni Unite e appoggiare la costituzione di uno Stato palestinese sono
stati di fatto negati dalla dichiarazione del segretario alla Difesa, il
quale ha detto che sì, nell´arco della sua vita «verrà stabilita una
qualche entità palestinese» e si discuterà della «cosiddetta
occupazione». Questo atteggiamento indica un cambiamento radicale
rispetto alla linea politica scelta da tutte le Amministrazioni
americane a partire dal 1967, che hanno sempre parlato di ritiro di
Israele dai territori occupati e di una vera pace tra Israele e i suoi
vicini. Voci belligeranti e divise sembrano adesso avere la meglio a
Washington, ma non riflettono ancora la decisione finale del presidente,
del congresso o delle Corti. E´ cruciale che prevalgano gli impegni
americani storici e ben fondati: alla pace, alla giustizia, ai diritti
umani, all´ambiente e alla cooperazione internazionale.
Tratto da "La Stampa" 12 ottobre 2002
Da
solo Bush perde prestigio
di Michail Gorbaciov
E’
ormai prevalente l’idea che l’attacco statunitense contro l’Iraq
sia già stato deciso e che l’interrogativo riguardi soltanto il
quando e il come.
E’ possibile che sia
effettivamente così. Eppure la stragrande maggioranza di osservatori,
analisti e capi di Stato ritiene che l’Iraq non rappresenta una
minaccia reale per gli Stati Uniti, e non è dal suo territorio che
nasce il pericolo del terrorismo.
L’amministrazione Usa
sostiene il contrario, ma non ha tuttora presentato le prove necessarie
né al Consiglio di Sicurezza dell’Onu né al Congresso americano.
E il fatto che la
leadership Usa non abbia alcuna considerazione della missione degli
ispettori, esercitando una pressione senza precedenti sui membri del
Consiglio di Sicurezza per ottenere da loro una risoluzione che lasci
mano libera alla guerra, fa nascere in molti il sospetto che queste
prove non esistano.
La Casa Bianca fa capire
di essere disposta ad agire da sola. Ma in questo caso dovrà assumersi
tutta la responsabilità, gravissima, per le conseguenze. Bush se ne
rende conto e, per questo, cerca di ottenere una nuova risoluzione del
Consiglio di Sicurezza che funga da copertura politica ad una «guerra
preventiva».
Quello che è necessario
in questo momento è una posizione ferma per prevenire ogni atto contro
l’Iraq senza il mandato del Consiglio di Sicurezza e per far ritornare
in Iraq gli ispettori dell’Onu in modo da chiarire le accuse che
vengono mosse contro Baghdad.
La posizione francese è
chiara, quella russa anche: prima occorre esperire le soluzioni
politico-diplomatiche e dare modo agli ispettori di verificare sul
terreno le disponibilità espresse dal regime iracheno, cioè ispezioni
senza pre-condizioni e limitazioni di alcun genere.
Simile è, di fatto, la
posizione della Cina, altro membro permanente del Consiglio di
Sicurezza. In queste circostanze il rifiuto di inviare gli ispettori è
semplicemente infondato. Sembra invece che l’amministrazione Usa tema
che il responso delle ispezioni internazionali sarà troppo diverso
dalle accuse americane.
Un attacco in queste
condizioni sarebbe totalmente inaccettabile. Washington cerca di
ottenere una nuova risoluzione, tentando con ogni pressione di
convincere i membri del Consiglio di Sicurezza.
Se questo portasse
all’approvazione di una risoluzione che ciascuno sarebbe libero di
interpretare a proprio piacimento - gli Usa per giustificare
l’attacco, gli altri membri del Consiglio di Sicurezza per sottrarsi
alle pressioni e ai ricatti di Washington - le conseguenze sarebbero
pericolose.
Si andrà in guerra con un
mondo diviso e in mezzo a polemiche feroci. Oltre ai morti, la prima
vittima sarà l’Onu. Molti commentatori sostengono che ormai gli Stati
Uniti non possono più tirarsi indietro, che sarebbe un colpo al loro
prestigio. Io penso il contrario.
La superpotenza che porta
sulle sue spalle l’enorme responsabilità per lo stato delle cose nel
mondo, per la cooperazione negli interessi della stabilità e della
sicurezza, può usare la propria posizione speciale e dar ascolto alle
inquietudini degli altri, agire fino in fondo nella cornice del
Consiglio di Sicurezza, sulla base del diritto internazionale.
Altrimenti resterà sola.
E, che lo voglia o no, ne
soffriranno il suo prestigio e l’influenza di cui gode nel mondo. Ma
io, come molti analisti, mi chiedo sempre più spesso: e se questa idea
di un attacco fulminante e decisivo contro l’Iraq non fosse legato a
un pericolo che questo rappresenterebbe per gli Usa e il mondo (parole
di Bush nella sua dichiarazione del 7 ottobre)?
Non si riesce a far a meno
di considerare un’altra ipotesi: che uno dei motivi della guerra, e
della fretta di Washington nell’imporla al proprio paese e a tutto il
mondo, sia lo stato precario dell’economia americana.
E’ molto diffuso il
sospetto che questa guerra la si voglia fare per prendere il controllo
diretto dei 115 miliardi di barili di petrolio che stanno nel sottosuolo
iracheno.
Oggi l’ostacolo a questo
controllo è rappresentato dal regime di Saddam Hussein. E gli Usa non
nascondono di volerlo rovesciare. Il regime che nascerà dopo la
sconfitta dell’Iraq sarà più accomodante con gli Usa e permetterà
loro di controllare uno dei maggiori giacimenti petroliferi e di
influire, attraverso il prezzo del petrolio, sull’economia mondiale.
Se questa ipotesi fosse
giusta, vorrei chiedere agli autori di questa strategia: non sarebbe più
sensato affrontare la questione di un nuovo modello di sviluppo che
aiuti a modificare l’anormale situazione, in cui gli Stati Uniti
consumano il 40% dell’energia elettrica del pianeta?
Non sta forse qui la
radice delle recenti dottrine militari americane, che hanno spaccato in
due perfino gli alleati? Gli Usa sperano di trarre vantaggio dalla
divisione dei loro alleati? Anche di fronte alla Russia si pongono
questioni difficili.
La Russia ha scelto
l’amicizia con l’Occidente e specialmente con gli Usa. Ma è
evidente che questa guerra non può portare alcun risultato positivo per
la Russia.
Al contrario essa colpirà
profondamente interessi economici, politici, strategici della Russia.
Non è un buon gioco quello di costringere gli alleati a subire perdite,
rendendoli sospettosi e irrequieti.
La Russia e l’Europa
oggi devono fare una scelta difficile: sono interessate a cooperare con
gli Usa, ma non possono rinunciare nemmeno a difendere la pace e la
legalità internazionale, che per altro coincidono con i loro interessi
nazionali e gli interessi della comunità mondiale.
Mettere l’una e
l’altra di fronte a questo dilemma è un errore che gli Stati Uniti
non devono commettere.
Tratto da "La Stampa" 11
ottobre 2002
Domani
di Pace - Parenti delle vittime dell'11 settembre
contro la guerra in Iraq
di Ornella Sangiovanni
Hanno perso
fratelli, sorelle, figli, mariti, generi negli attentati dell'11
settembre ma non per questo chiedono vendetta. Anzi, partecipano alle
mobilitazioni pacifiste di questi giorni. Sono i familiari di alcune
delle vittime degli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono. Sono
l'altra America: quella che non si vede sulla Cnn o sulle altre reti tv.
Quella che si rifiuta di considerare la guerra una risposta al
terrorismo. Un'America minoritaria, ma decisa a far sentire la propria
voce. I membri di Peaceful Tomorrows («Domani - al plurale - di
pace»), associazione il cui nome si ispira alle parole di Martin Luther
King Jr. - «Le guerre sono scalpelli scadenti per costruire domani di
pace» - hanno deciso di reagire al dolore, alla tragedia che li ha
colpiti riconoscendo che non ha carattere di unicità. Il dolore li
unisce a tutti coloro che hanno perso delle persone care a causa del
terrorismo e della guerra, in qualunque parte del mondo si trovino:
famiglie delle vittime di Hiroshima e Nagasaki, Israele e i territori
palestinesi occupati, Afghanistan, Iran, Colombia, Irlanda e tanti altri
paesi.
«Siamo arrivati a riconoscere la nostra parentela con altre vittime
innocenti del terrorismo e della guerra, una parentela che va oltre i
confini» si legge nella dichiarazione che hanno diffuso in occasione
del primo anniversario dell'11 settembre. La lezione che l'America deve
imparare dall'11 settembre - scrivono - è che «non esistono barricate
abbastanza alte, né bombe abbastanza grandi, né intelligence
abbastanza sofisticata da poter prolungare l'illusione
dell'invulnerabilità americana». «Da quel giorno - prosegue la
dichiarazione - ci è diventato chiaro che l'America deve partecipare
pienamente alla comunità globale». E' una consapevolezza che hanno
posto al centro del loro agire: trovare nuovi modi di rapportarsi col
resto del mondo, andare al di là della ricerca di vendetta e
conquistare l'ingiustizia creando un mondo più giusto. E' così che
alcuni di loro sono stati due volte in Afghanistan per incontrare i
familiari delle vittime dei bombardamenti americani. Oggi insieme si
stanno battendo perché il governo americano crei un fondo a favore
delle famiglie delle vittime afghane.
Centrale nella loro attività è il rifiuto della guerra. Rita Lasar, 70
anni, ha perso il fratello in una delle due torri del World Trade
Center. Abe Zelmanowitz si trovava al 27esimo piano, dove aveva deciso
di rimanere per non abbandonare un amico quadriplegico che non poteva
scendere le scale. Rita, che è stata con altri in Afghanistan e di
recente è tornata da un viaggio a Hiroshima, ha raccontato in diretta
tv sulla Msnbc cosa ha provato ascoltando le parole del presidente Bush,
che pure aveva lodato l'eroismo di suo fratello. «Quando il presidente
Bush ha citato mio fratello ed è diventato chiaro che il suo nome
sarebbe stato usato per uccidere degli innocenti, migliaia di innocenti,
in un paese lontano, mi sono sentita male quasi come quando mio fratello
è morto».
Oggi si oppongono a una guerra contro l'Iraq. «La progettata invasione
dell'Iraq - una nazione che non ha legami dimostrati con gli eventi
dell'11 settembre - nel nome della guerra al terrorismo significa che più
americani militari e civili moriranno, con effetti imprevisti sulla
nostra sicurezza, economia, capacità di affrontare le cause alla radice
del terrorismo, e sul nostro rapporto con altre nazioni».
Hanno scelto di ricordare il primo anniversario dell'11 settembre con
delle iniziative che incarnano questo spirito, che parte dal
riconoscimento dell'universalità del dolore, per affermare il rifiuto
della guerra e della violenza come soluzione. E con il tour «Non più
vittime», innanzitutto, organizzato assieme all'American Friends
Service Committee, organizzazione di Quaccheri americani, e i
familiari di persone uccise a causa delle guerra o del terrorismo in
Afghanistan, Iraq, Israele e territori occupati, Filippine e Giappone.
Tratto da "Il Manifesto" 9 ottobre 2002
Perché
dico no a Bush
di Robert Byrd
(senatore democratico)
Una improvvisa
voglia di guerra all’Iraq sembra essersi impossessata
dell’amministrazione Bush e del Congresso. Il dibattito è cominciato
in Senato l’altra settimana e si concentra su questa monumentale
questione: se e perché gli Usa dovrebbero far guerra all’Iraq.
Però non di questo si discute davvero, ma del marchingegno che dovrebbe
dare mano libera al Presidente, affidandogli il potere senza controlli
di portare una guerra non provocata a uno stato sovrano.
Come siamo arrivati a un punto così basso nella storia di questo
Congresso? Siamo diventati troppo deboli per resistere alle pressioni di
un Presidente che sta cambiando il senso della espressione «diritto
alla difesa»? E come mai permettiamo che si discuta di guerra alla
vigilia di un turno elettorale? Il Congresso non può e non deve cedere
alle pretese dell’Esecutivo. Sarebbe come rinunciare ai nostri poteri
costituzionali. Non possiamo imbrigliare il futuro Congresso (quello che
uscirà dalle elezioni del 5 novembre, ndr) decidendo adesso, con un
voto miope. Il Paese ha diritto alla nostra più attenta riflessione. Ho
ascoltato il presidente. Ho interrogato uno a uno i suoi ministri. Ho
esaminato ogni singolo materiale che costituisce evidenza e che dovrebbe
convincermi a dare il mio assenso.
Gli argomenti presentati dal presidente mi appaiono, nel migliore dei
casi, generici. Saddam Hussein è una minaccia, d’accordo. Ma non così
grande da farci precipitare ad autorizzare una guerra proprio prima
delle elezioni.
Perché siamo inseguiti da questa pressante richiesta di rinunciare ai
poteri di cui ci ha investito la Costituzione per passarli al
Presidente? Se noi dicessimo sì, il Presidente sarebbe autorizzato a
usare la forza militare di questo Paese nel modo che crede e che gli
sembrerà migliore e per tutto il tempo che crede. È un assegno in
bianco. Tenete presente che il nostro voto diventa anche approvazione
della dottrina di guerra preventiva, la dottrina di Bush nel documento
chiamato «Strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti»,
dottrina che potrà essere usata contro qualunque Paese che il
presidente deciderà di indicare come una minaccia.
Siamo giunti a un momento molto grave.
Noi siamo direttamente eletti dai cittadini. Il popolo americano si
aspetta da noi che noi si risponda secondo il potere di cui siamo
investiti. So benissimo che non è sempre possibile evitare la guerra.
Ma proprio per questo non possiamo passare ad altri la nostra
responsabilità che è quella di determinare se e quando una guerra è
necessaria. Noi non possiamo permettere che il Presidente scateni a nome
nostro la furia della guerra a sua discrezione e per un tempo
indeterminato. Ma questo è proprio ciò che ci viene chiesto. La storia
non sarà benevola con noi, se diciamo sì.
Io vi suggerisco di prendere tempo, di tornare nei nostri collegi
elettorali, di ascoltare i nostri elettori. Siamo a 27 giorni dalle
elezioni che riguardano tutta la Camera e un terzo del Senato. Questo è
il momento di parlare con gli elettori e di ascoltarli. Suggerisco che
li ascoltiamo bene i nostri elettori, perché quando noi daremo il
nostro voto, è il popolo americano che ne pagherà le conseguenze, se
avremo votato una guerra e avremo deciso il destino di tanti giovani
figli e figlie di questo Paese.
Tratto da
"L'Unità" 11 ottobre 2002
Sia
respinta la guerra - Editoriale-appello ai membri del
Congresso americano pubblicato da The Nation
Presto vi sarà
chiesto di votare su una risoluzione che autorizzerebbe gli Stati uniti
a rovesciare il governo dell'Iraq con la forza militare. La sua
approvazione, leggiamo dappertutto, è una conclusione scontata, come se
ciò che il paese ha ora di fronte non fosse una decisione ma la
rivelazione di un fato. Il paese marcia verso la guerra come se fosse in
trance. Alla Camera, venti di voi, guidati da Dennis Kucinich, hanno
annunciato la loro contrarietà alla guerra. Al Senato, Robert Byrd ha
montato una campagna contro la versione della risoluzione già proposta
dall'amministrazione Bush. Ha dichiarato che l'incostituzionalità della
risoluzione gli impedirà di votarla. «Ma sto scoprendo» ha aggiunto,
«che la Costituzione è irrilevante per le persone di questa
amministrazione». Secondo il Washington Post, i capi di stato
maggiore sono contrari alla guerra. Le telefonate e la posta che
ricevete si esprimono in modo fortemente contrario. I sondaggi e gli
articoli di giornale rivelano un pubblico diviso e incerto. Tuttavia il
vostro dibattito è limitato a questioni periferiche, come i tempi del
voto, o l'ambito preciso della risoluzione. Siete un corpo deliberante,
ma non deliberate. Siete rappresentanti, ma non rappresentate. Il
silenzio di quelli di voi che fanno parte del Partito Democratico è
particolarmente preoccupante. Voi siete il partito di opposizione, ma
non vi opponete. Sollevare la questione della guerra, vi dicono i vostri
consiglieri politici, vi distoglierà dalle questioni interne che
favoriscono le chance del partito nelle prossime elezioni per il
Congresso. Messi davanti alla guerra preventiva dell'amministrazione, i
vostri leader hanno scelto la resa preventiva. Pur di restare al potere,
vi viene detto, non dovete esercitare il potere in materia di guerra di
cui disponete. Qual è, allora, lo scopo della vostra rielezione? Se ci
riuscirete, avrete già gettato via il potere che teoricamente avreste
ottenuto. Sarete membri del Congresso, ma il Congresso non sarà il
Congresso. Anche le fortune delle cause interne che promuovete
dipenderanno molto di più dalla decisione della guerra che dall'esito
elettorale.
Il 4 aprile 1967, mentre infuriava la guerra in Vietnam, Martin Luther
King jr. disse: «Arriva un momento in cui il silenzio è un tradimento».
Ed egli disse anche: «Alcuni di noi, che hanno già cominciato a
rompere il silenzio della notte, hanno scoperto che essere chiamati a
parlare è spesso una vocazione all'agonia, ma dobbiamo parlare.
Dobbiamo parlare con tutta l'umiltà che si addice alla limitatezza
della nostra visione, ma dobbiamo parlare».Ora il momento di parlare è
arrivato di nuovo. Noi vi chiediamo di parlare - e, quando verrà il
momento, di votare - contro la guerra in Iraq.
Il motivo per essere contrari alla guerra è semplice, chiaro e forte.
L'amministrazione la chiama un capitolo della guerra al terrorismo, ma
l'Iraq non ha legami dimostrati né con gli attacchi dell'11 settembre
contro gli Stati uniti, né con la rete di Al Qaeda che li ha lanciati.
L'obiettivo della guerra è privare il presidente Saddam Hussein di armi
di distruzioni di massa, ma la portata del suo programma per costruire
queste armi, se ancora esiste, è oscura. Ancor meno chiara è qualunque
intenzione da parte sua di usare tali armi. Farlo sarebbe un suicidio,
come lui ben sa. La deputata democratica californiana Anna Eshoo ha
riferito che in una sessione a porte chiuse è stato chiesto più volte
ai rappresentanti dell'amministrazione se abbiano le prove di una
imminente minaccia da parte di Saddam Hussein agli Stati uniti, e loro
hanno risposto no. Ha specificato «Non "no, ma" o
"forse", ma "no"». D'altra parte, se lui le ha
veramente, e rischia la deposizione e forse la morte per mano delle
forze Usa, lui potrebbe di usarle - o, più probabilmente, darle a
gruppi terroristici da usare dopo la sua caduta. Potrebbe farlo anche
adesso.
Alcuni osservatori hanno paragonato la risoluzione in discussione a
quella del Golfo del Tonchino del 1964, che autorizzava il presidente
Johnson a usare la forza in Vietnam. Ma quella fu approvata solo dopo
che arrivò la notizia di due attacchi alle forze navali Usa (oggi
sappiamo che il primo attacco fu provocato da un precedente attacco
americano segreto e il secondo era inesistente). La nuova risoluzione,
che non fa riferimento ad alcun attacco, neanche a uno fittizio, va più
in là. È una risoluzione del Golfo del Tonchino senza un incidente da
Golfo del Tonchino.
Anche se Saddam possiede le armi di distruzione di massa e intende
usarle, una politica di deterrenza apparirebbe perfettamente adeguata a
fermarlo, proprio come fu adeguata, mezzo secolo fa, a fermare un
dittatore molto più temibile, Joseph Stalin. Non è vero che la forza
militare è il solo mezzo per impedire la proliferazione di queste armi,
sia all'Iraq che ad altri paesi. Una via alternativa è chiaramente
percorribile. Nel breve periodo questa passa attraverso le Nazioni unite
e il suo sistema di ispezioni, ora più promettente di prima perché
l'Iraq, rispondendo alle pressioni Usa, ha aperto agli ispettori in modo
incondizionato. Quantomeno, questa via dovrebbe essere esplorata appieno
prima che l'azione militare - tradizionalmente l'ultima risorsa - venga
anche solo presa in considerazione. Una tale scelta a favore del
multilateralismo, della diplomazia e degli trattati dovrebbe essere
parte di una politica molto più vasta di non-proliferazione e di
disarmo del tipo che ha già avuto grande successo negli scorsi decenni.
In base al trattato di non-proliferazione delle armi nucleari, per
esempio, 182 nazioni hanno accettato di fare a meno di armi nucleari.
La questione più ampia è se la proliferazione - non solo nei confronti
dell'Iraq, ma anche di molti altri paesi - sia affrontata meglio con
mezzi militari o politici.
Ma la decisione di andare alla guerra ha un significato che va oltre la
guerra. La guerra è il prodotto di una più vasta politica, che
l'amministrazione Bush ha espresso nel modo più chiaro possibile. Due
altri paesi con programmi nucleari - l'Iran e la Corea del nord - sono
già stati identificati dal Presidente come potenziali target per un
attacco militare. Il documento recentemente pubblicato
dall'amministrazione, «National Security Strategy of the United States»
esprime ambizioni anche maggiori. Esso proclama una politica di
supremazia militare su tutta la terra - un obiettivo mai perseguito
prima da nessuna potenza. Nel frattempo i programmi militari sono
vietati agli altri paesi. A tutti questi deve essere impedito di «sorpassare
o eguagliare» gli Stati uniti. Alla Cina viene riservato l'avvertimento
che «perseguendo capacità militari avanzate», essa sta seguendo «un
percorso sorpassato» che «minaccia i suoi vicini». La nuova politica
rovescia una lunga tradizione americana di disprezzo per gli attacchi
non provocati. Essa dà agli Stati uniti il diritto illimitato di
attaccare altri paesi anche se non sono stati attaccati da essi, e non
stanno per esserlo. Rinuncia alla deterrenza in cambio della prevenzione
- in parole semplici, aggressione. Conferisce agli Stati uniti il
diritto di rovesciare qualunque regime - come quello in Iraq - qualora
lo decida (il Presidente vorrebbe il sostegno internazionale e quello
del Congresso, ma afferma il suo diritto di muovere guerra senza nessuno
dei due). Dichiara che la difesa degli Stati uniti e del mondo contro la
proliferazione nucleare è la forza militare. È una politica imperiale
- più ambiziosa di quello dell'antica Roma che, dopo tutto, si
estendeva solo fino al Mediterraneo e all'Europa. Nelson Mandela ha
detto recentemente dell'amministrazione: «Loro pensano di essere la
sola potenza al mondo... un paese vuole intimidire il mondo».
Un voto a favore della guerra in Iraq è un voto a favore di questa
politica. La più importante delle questioni sollevate dalla guerra,
comunque, è ancora più ampia. È che tipo di paese gli Stati uniti
vogliono essere nel ventunesimo secolo. L'essenza della forma di governo
dell'America è stata la creazione di un sistema di istituzioni per
controllare e bilanciare il potere governativo e fare così in modo che
esso risponda dei suoi atti alla gente. Oggi questo sistema è
minacciato da un mostro - un potere privo di contrappesi e che non
risponde dei suoi atti - un nuovo Leviatano che sta prendendo forma tra
noi nel ramo esecutivo del governo. Mentre minaccia una guerra infinita
e non provocata, questo Leviatano - nascosto in una segretezza che si è
creato da solo e che diventa sempre più profonda, e nutrito dai fiumi
di soldi delle corporations che, come ha dimostrato il
susseguirsi degli scandali, hanno smesso esse stesse di rispondere dei
propri atti - minaccia anche i diritti civili. Tanto irrispettosa della
Costituzione quanto lo è della Carta dell'Onu, l'amministrazione per
raggiungere i suoi obbiettivi si è allontanata dalla legge in tutte le
sue espressioni e ha riposto invece la sua fiducia su una forza
enorme.Andando alla ricerca di un impero all'estero, mette in pericolo
la Repubblica in casa sua. L'intimidazione del mondo minaccia di
diventare anche l'intimidazione degli americani. Già ora, il
dipartimento della Giustizia afferma il proprio diritto di imprigionare
dei cittadini americani indefinitamente per il solo motivo che al
Pentagono un burocrate li ha etichettati «combattenti nemici», come
vengono chiamati.
Anche il sistema elettorale interno è stato compromesso dalla débacle
in Florida. Né le ombre gettate sulla democrazia da quelle elezioni
sono ancora state cancellate. La riforma elettorale non c'è stata. Una
modesta riforma della campagna elettorale finalizzata a rallentare il
flusso di denaro che dalle corporations inonda la politica, anche
dopo essere stata approvata al Congresso, è sotto approfondita
valutazione delle decisioni presidenziali. Cosa ancora più importante,
la campagna del Congresso di quest'anno, evitando il dibattito sulla
questione fondamentale della guerra e della pace, ha segnalato al
pubblico che persino nelle questioni più importanti per il paese, né
questo né i suoi rappresentanti assumono decisioni; solo il potere
esecutivo lo fa.
Membri del Congresso! Siate fedeli ai vostri giuramenti e alle
tradizioni del vostro ramo del governo. Pensate al paese, non alla
vostra rielezione. Affermate il vostro potere. Difendete le prerogative
del Congresso. Difendete la Costituzione. Rifiutate l'arroganza - e
l'ignoranza - del potere. Dimostrate rispetto per i vostri costituenti -
essi richiedono il vostro onesto giudizio, non la capitolazione davanti
al potere esecutivo. Dite no all'impero. Affermate la Repubblica.
Preservate la pace. Votate contro la guerra in Iraq.
Tratto da "Il
Manifesto" 9 ottobre 2002
Non
voto la guerra - documento di 131 parlamentari
dell'opposizione italiana
Noi, deputati e senatori contrari ad un
attacco armato all'Iraq, rivolgiamo un appello a tutti i rappresentanti
del popolo che siedono in parlamento: fermiamo la macchina di questa
guerra. Noi non vediamo il collegamento con la indispensabile lotta al
terrorismo internazionale, che costituisce una minaccia per l'umanità.
Noi temiamo piuttosto il piano inclinato di uno scontro tra civiltà,
destinato ad alimentare il fondamentalismo islamico e a rendere sempre
più ingovernabile il mondo. Noi avvertiamo i rischi immanenti per la
sicurezza del nostro e di ogni altro paese, in particolare quelli
dell'area del Mediterraneo.
Ora molte contrarietà e dubbi, tra gli stati membri delle Nazioni unite
e dello stesso consiglio di sicurezza, sembrano contrastare le certezze
di un conflitto inevitabile. Siamo convinti che le Nazioni unite debbano
agire in piena autonomia e non subire l'imposizione di una risoluzione
che accolga il principio della «guerra preventiva», contrastante con
la loro Carta fondativa.
- perché un tale deliberato di autorizzazione alla guerra non potrebbe
trasformare una scelta sbagliata in una scelta giusta;
- perché, lungi dal rafforzare il ruolo delle Nazioni unite potrebbe
essere causa della loro delegittimazione agli occhi della gran
maggioranza dell'opinione pubblica mondiale.
Per questo i nostri sforzi vogliono essere orientati:
- ad esigere dall'Iraq di accettare le ispezioni sugli armamenti e in
tutti i siti;
- ad evitare la guerra, rappresentando in questo modo gli orientamenti
maggioritari dell'opinione pubblica europea e di una parte importante di
quella degli Stati uniti;
- a proporre che l'Onu avvii un processo negoziale sul disarmo, relativo
agli armamenti nucleari e chimico-batteriologici, in tutta l'area medio
orientale, anche nel quadro della soluzione del conflitto
israeliano-palestinese.
Sono queste le posizioni che sosterremo nel parlamento e nel paese,
riaffermando il valore e l'efficacia, nell'era della globalizzazione,
dell'articolo 11 della costituzione italiana. Noi non voteremo per la
guerra all'Iraq.
C. Acciarini, M. Agostini, E. Baio Dossi, F. Bandoli, F. Baratella,
G. Battaglia, T. Bedin, K. Bellillo, G. Bellini, F. Bertinotti, G.
Bianchi, V. Bielli, F. Bimbi, R. Bindi, S. Boco, M. Bonavita, D.
Bonfietti, P. Brutti, G. Buffo, M. Bulgarelli, G. Burtone, V. Calzolaio,
F. Carboni, F. Carella, P. Castellani, M. Cavallaro, A. Cennamo, P.
Cento, M. Cialente, L. Cima, F. Cortiana, A. Cossutta, M. Cossutta, F.
Crucianelli, G. D'Andrea, N. Dalla Chiesa, S. Dameri, S. De Franciscis,
E. Deiana, F. De Martino, L. De Petris, T. De Simone, T. De Zulueta, O.
Diliberto, O. Di Serio D'Antona, P. Di Siena, A. Donati, E. Duca, L.
Duilio, A. Falomi, E. Fassone, G. Fioroni, A. Flammia, A. Fluvi, P.
Folena, G. Frigato, M. Fumagalli, A. Gaglione, P. Gasperoni, L. Giacco,
A. Gianni, P. Giaretta, F. Giordano, G. Giulietti, A. Grandi, G.
Grignaffini, F. Grillini, R. Innocenti, A. Iovene, G. Kessler, C. Leoni,
M. Lion, G. Lolli, A. Longhi, M. Magistrelli, L. Malabarba, G.
Malentacchi, R. Mantovani, L. Marcora, L. Marino, F. Martone, G. Mascia,
G. Melandri, L. Meduri, A. Monticone, G. Morgando, D. Mosella, F. Mussi,
A. Muzio, N. Nesi, A. Occhetto, G. Pagliarulo, G. Panattoni, A. Pecoraro
Scanio, L. Pennacchi, G. Petrella, R. Pinotti, S. Pisa, G. Pisapia, G.
Pistone, A. Pizzinato, E. Realacci, G. Reduzzi, N. Ripamonti, M. Rizzo,
A. Rotondo, R. Ruggeri, A. Rusconi, G. Russo Spena, S. Sabattini, C.
Salvi, G. Santagata, R. Sciacca, C. Sgobio, A. Soda, T. Sodano, A.
Soliani, A. Sasso, P. Toia, L. Trupia, S. Turroni, T. Valpiana, S.
Vertone, N. Vendola, F. Vigni, M. Villone, W. Vitali, D. Volpini, G.
Zancan, L. Zanella, K. Zanotti
Tratto da "Il Manifesto" 18
ottobre 2002
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