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Il diritto
dell’uomo di darsi la buona morte
Questo dialogo tra Paolo Flores d'Arcais e l'arcivescovo di Genova Dionigi Tettamanti è un estratto del più ampio confronto tra i due interlocutori pubblicato sul numero 1/2001 di "MicroMega" tra qualche giorno in libreria. La rivista ospita anche testi di Massimo Cacciari, Roberto Scarpinato, Achille Bonito Oliva, Achille Occhetto, Enrico Baj, Edoardo Sanguineti, Gianni Barbacetto e Marco Travaglio. FLORES D'ARCAIS: Il nostro valore comune è sempre quello della eguale dignità di ciascuno in quanto esistenza irripetibile. In che modo, a partire da tale principio, può essere condannato chi decida che la propria esistenza, destinata ormai a un "futuro" di mera e crescente sofferenza insopportabile, priva di ogni speranza, non essendo più vita (vita umana) per lui che la vive, ma semplice tortura, debba finire ora, senza torture ulteriori? (...) Con che diritto potrebbe essere un altro, un essere umano e finito come lui, a decidere al suo posto? TETTAMANZI: Il vero problema è che non deve decidere né il medico, né lo Stato, né l'individuo che sta vivendo questa situazione. Deve decidere il tu, abbiamo detto, ma chi è questo tu? È esclusivamente l'individuo nel rapporto con sé stesso, cosicché è lo stesso io che diventa un tu oppure è l'individuo che si costituisce in tu proprio in rapporto agli altri tu, quali sono in questo caso il medico, o lo Stato, o i parenti od altri ancora? Oppure il tu è - in una visione religiosa ma esclusivamente non della fede cristiana - un'istanza trascendente, e assoluta, che in qualche modo davvero precede l'individuo e in qualche modo lo impegna a confrontarsi con questa stessa istanza? In termini laici potremmo definirla il senso del vivere e del morire, quindi il tu della natura. In termini più religiosi, o confessionali, o propriamente cristiani, questa istanza, questo tu è Dio. FLORES D'ARCAIS: Facciamo uno sforzo serio di immaginarci nella situazione di un malato terminale (che in realtà sarà sempre più dolorosa e dura di ogni nostra immaginazione. Per "immaginarla" davvero bisogna viverla, e chi la "vive" assai di rado ha voglia di discuterla, analizzarla, trascriverla). Un malato che sente ormai assolutamente insopportabili i giorni, le ore, i minuti, i secondi di mera tortura cui è ridotto il suo "futuro", la sua "vita", il suo bios. E che chiede disperatamente che la sua condanna a morte, già decretata dalla malattia, venga eseguita senza ulteriori torture (non solo fisiche ma anche psicologiche). Sa di volere davvero e assolutamente quello che va disperatamente chiedendo, ma coloro che gli sono intorno, per "assisterlo" (e "l'amore che viene offerto ai morenti deve essere incondizionato", scrive lei stesso a pag. 527), non solo possono rifiutarsi di assisterlo, ma possono farlo nella forma più crudele e che rende esponenziale la cifra di solitudine del malato: dicendosi, e dicendogli, che non sa quello che dice, e che certamente intende qualcosa di opposto a quello che le sue parole stanno disperatamente invocando.(...) Alla fin fine, perciò, bisogna che prendiamo sul serio l'idea che la persona morente stia chiedendo proprio ciò che le sue parole dicono. Il problema da porsi, allora, è solo se qualcuno ha il diritto di impedire che sia fatta la sua volontà, se qualcuno ha il diritto di imporgli la propria. Chi, e perché? Lei ha ricordato che per il credente questo "chi" c'è, ed è un "Chi" maiuscolo: Dio Padre. Ma (...) se non si schiera in campo l'argomento della volontà sovrana e infinitamente buona di un Dio Padre, non resta un solo argomento umano e razionale per dire no alla volontà accertata, reiterata, tragica e incrollabile di chi non considera più vita (umana) il futuro di tortura che ancora gli avanza. Se non gli si può contrapporre la sovranità di Dio, non si vede quale sovranità umana "altra" possa prevalere sulla propria rispetto a ciò di cui nulla può essere più proprio, cioè la propria vita. (...) Stringendo: noi tutti siamo contro la pena capitale. Ora, nel caso del malato terminale, abbiamo a che fare con un condannato a morte che non ha commesso alcun delitto, ma la cui condanna, frutto del caso, si sta eseguendo attraverso indicibili torture. Questa la nuda verità della situazione. E perfino gli Stati (e le loro maggioranze di cittadini) ancora favorevoli alla pena capitale (solo per delitti gravissimi ed efferati, ormai) da tempo hanno escluso che l'esecuzione delle sentenze possa avvenire con modalità "disumane"… (...) Il malato terminale è oggi l'unico condannato a morte (innocente, oltretutto) contro il quale ci arroghiamo il diritto di imporre la tortura (e non per qualche ora, spesso per giorni, settimane, mesi) quale forma di esecuzione. (...) Del carattere insopportabile del dolore (fisico ma anche psichico) di una malattia terminale, unico giudice è il paziente, a meno di non volerci ergere a Dio noi stessi. Impedire a una persona, che comunque sta per morire, di morire senza tortura, viene etichettato come eutanasia e sanzionato penalmente, perfino come omicidio: francamente, un orrore. TETTAMANZI: Certamente, non dobbiamo essere noi a interpretare la volontà delle persone, ma dobbiamo innanzi tutto accogliere quanto le persone ci dicono, nel rispetto dell'altro e rifiutando la tentazione di imporre all'altro criteri, giudizi, sentimenti che invece sono nostri. Su questo credo ci sia un perfetto accordo. Nel suo lungo intervento è emerso un problema che mi pare interessante proprio in rapporto all'eutanasia: lei ad un certo punto ha ricordato che riconosciamo legittimo intervenire per alleviare la sofferenza degli animali e in questo caso io penso che oggi sia possibile, molto più che in passato, venire incontro al paziente con un'adeguata assistenza, sia umana sia analgesica. FLORES D'ARCAIS: La questione cruciale, però, resta: alla fine, chi decide? L'individuo, o qualcuno più "assoluto" di lui? Ma questo qualcuno (trascendenza, natura, Dio) è poi un altro individuo che lo interpreta. E comunque, in termini strettamente umani e razionali, questo "oltre" è del tutto problematico. (...) Torniamo sempre allo stesso punto e non lo ripeteremo mai abbastanza: senza la fede (cattolica, o islamica, o della teologia ebraica maggioritaria) non c'è argomento che tenga contro l'eutanasia, tanto è vero che lei stesso scrive: "Se la fede nel Crocefisso viene meno, l'uomo non riesce più a percepire il carattere immorale dell'eutanasia. Così come quando vacilla o scompare la fede nella vita eterna: se l'unica esistenza è quella terrena (…) è logico viverla se apporta e offre soddisfazioni, ed è altrettanto logico stroncarla se reca sofferenza e procura dolore". (...) Su che base argomentativa, allora (che non sia una fede religiosa specifica), si può obiettare contro la depenalizzazione dell'eutanasia (nel senso più volte precisato), sanzionata nel nostro codice penale (artt. 579, omicidio di consenziente, e 580, istigazione e aiuto al suicidio) o addirittura punita come omicidio tout court? TETTAMANZI: Sul punto cruciale: sono d'accordo nel dire che solo a partire da una concezione antropologica che contempli la realtà di Dio - del Dio cristiano - si può dire un "no" assoluto all'eutanasia. Sottolineo l'aggettivo assoluto, però, perché continuo a credere che anche alla luce dell'esperienza, laddove non esista la fede o la fede cristiana o la religiosità, ma solo la razionalità, può essere presente un "no" all'eutanasia. Quindi è sul carattere di assolutezza di questo "no" che mi sento di condividere la tesi che questo assoluto "no" resta, non necessariamente a livello teorico, quanto a livello pratico, legato a una prospettiva chiaramente religiosa, anzi di fede cristiana, e se si vuole di fede cristiana cattolica. (...) A me pare che tra i due estremi - di una legge che si formula a partire dal rispetto pieno della libertà di ciascuno, con la difficoltà che poi dovrebbero diventare tante leggi quanti sono gli Io responsabili in questione, e di uno Stato inevitabilmente teocratico - ci sia lo spazio per un criterio che è dato dal bene comune. So di introdurre un termine sul quale certo si potrà discutere. Io lo intendo come l'insieme di quei valori umani che si ritengono del tutto necessari perché la convivenza possa essere più pacifica, più ordinata, non selvaggia né caotica. A me pare che sia in base a questo riferimento al bene comune, e quindi a dei valori umani e condivisi, che debba essere formulata una legge. Vado avanti, e dico che il problema dell'eutanasia è un problema nel quale se c'è una connessione tra l'ordine morale e umano e l'ordine legale e civile di uno Stato, c'è anche una distinzione tra di essi. Il che significa che si può ammettere una legge che non collimi con l'ordine morale. Tra l'ordine morale e l'ordine legale esiste cioè la distinzione per cui non sempre tutto ciò che è male, per il fatto che è male, deve essere sanzionato dalla legge, deve essere punito dallo Stato. Da questo punto di vista anche la dottrina della Chiesa cattolica - e in proposito san Tommaso fa testo - ha sempre ammesso il principio della tolleranza, della tolleranza civile, del male minore, e quindi della concreta accettazione di determinati mali. A me ha sempre fatto impressione una frase biblica citata da san Tommaso, che mi pare molto significativa della distinzione tra ordine morale e ordine legale, "qui nimis emungit sanguinem elicit", chi munge troppo cava fuori anche il sangue. San Tommaso la richiama proprio nel senso di affermare che lo Stato non può proibire ogni male perché è male. Aggiunge, però, che deve proibire quei mali che se fossero accettati significherebbero una grave compromissione dell'ordine sociale. Detto questo, c'è da porsi l'interrogativo se il tema della vita e della morte sia uno dei tanti temi sui quali è possibile - o addirittura doverosa, arrivo a dire - una tolleranza, oppure uno di quei temi sui quali la tolleranza significherebbe un attentato alla convivenza sociale come tale. (…) Nel riaffermare la tolleranza del minor male, ho sempre concluso: tolleranza sì, ma sin dove? Una tolleranza che non abbia limiti finisce per essere un rischio, o un ostacolo alla convivenza e quindi, ultimamente, per l'uomo stesso. FLORES D'ARCAIS: Fin dove? Gliela rivolgo io questa domanda, a partire da ripetute indagini, assolutamente serie, svolte in congressi medici attraverso questionari non firmati, dalle quali risulta che una percentuale molto alta - talvolta maggioritaria - di medici ammette di aver praticato, o che praticherebbe, l'eutanasia nel caso di pazienti in situazione di sofferenze estreme che hanno chiesto reiteratamente e reiteratamente pregato, scongiurato, implorato, che alla loro flebo venga aggiunta una sostanza che ponga fine alle loro torture. TETTAMANZI: Ai medici, di fronte a questo dato di fatto, torno di nuovo a dire che, intanto, siamo di fronte ad un male vero e proprio. Che poi, di fronte a questo male vero e proprio, in certe situazioni una persona che non ha una prospettiva propriamente religiosa non riesca a trovare un argomento del tutto convincente e quindi dirimente questo angoscioso problema, questo io lo accetto non solo come dato di fatto ma mi pare di poterlo accogliere anche in chiave teoretica, proprio per il punto di partenza dal quale abbiamo preso le mosse, e cioè che il no assoluto all'eutanasia anche nelle situazioni più drammatiche o si radica in una prospettiva di fede religiosa o diversamente, almeno in termini assoluti, non regge. FLORES D'ARCAIS: Non abbiamo fin qui trovato alcuna argomentazione umana che sia d'ostacolo a riconoscere che non deve essere sanzionata penalmente la decisione di chi consideri ormai insopportabili le sofferenze che gli restano da "vivere", e di chi non si rifiuti alle reiterate e inequivoche richieste di aiuto per porre fine a tali torture. (...) Del resto, il carattere contraddittorio della posizione ufficiale della Chiesa viene in luce già molti anni fa, in una dichiarazione di Pio XII (24 febbraio 1957) a favore della liceità dell'uso di analgesici, anche quando è prevedibile che abbiano l'effetto collaterale di accelerare la fine del paziente (…) La casistica che ne deriva, se si mantiene al tempo stesso l'assoluta condanna dell'eutanasia, è di allucinante mostruosità: si possono dare dosi sempre più massicce di morfine, anche se accorciano la "vita" del paziente (e cosa altro è l'eutanasia se non questo "accorciare"?), ma non tali da accorciarla tutta in una volta. L'eutanasia, insomma, per essere cattolicamente lecita deve essere somministrata a rate. Tali analgesici, del resto, sono leciti anche se mettono il paziente in condizione di incoscienza, come lei stesso ricorda più di una volta. Dunque è lecito, a forza di morfine, tenere il paziente in stato permanente di incoscienza. O forse, poiché una condizione di totale incoscienza, in un contesto di fine accelerata, certamente non è vita umana ma puro bios vegetativo, il paziente andrà ogni tanto fatto riemergere alla coscienza? E se tale altalena di tortura supplementare non è prevista dalla dottrina cattolica, perché rifiutare che il sonno dell'incoscienza diventi subito, anziché a rate, sonno eterno? (...) Le mostruosità di questa casistica diventano un sabba, infine, se si pensa che staccare un respiratore può essere lecito (qualora non lo si consideri "cura normale dovuta"), di modo che si può accogliere la richiesta di morte del paziente lasciandolo morire soffocato (questo significa staccare il respiratore, se il paziente è cosciente) ma non, invece, lasciandolo morire con una iniezione di pentotal (e perché mai solo quest'ultima "lederebbe grandemente l'onore del Creatore", per usare le parole di condanna dell'eutanasia della Gaudium et spes)? TETTAMANZI: Io ho parlato in precedenza della distinzione tra ordine morale e ordine legale. Mi pare importante questa distinzione perché se l'ordine morale, quindi l'ordine della propria coscienza o della legge morale, dice di no a un determinato comportamento, questo "no" rimane anche laddove la legge dovesse invece depenalizzare o autorizzare un comportamento che è in contrasto. Il rilievo può sembrare banale, ma banale non è perché oggi è molto diffusa l'idea che ciò che la legge propone, proprio per il fatto che è la legge a proporlo, è perciò stesso un bene: potrebbe essere un bene, ma potrebbe anche non esserlo. Quindi anche questa distinzione mi pare importante. Infine sono emerse a un certo punto, nella terminologia usata, due parole che nella loro differenza mi paiono importanti: in tema di eutanasia, è possibile un intervento legislativo che depenalizzi un determinato comportamento, oppure un intervento legislativo che non si limiti a depenalizzare ma proceda oltre, e quindi autorizzi o addirittura comandi. FLORES D'ARCAIS: Comandi? Nessuno si sognerebbe mai di avanzare una cosa del genere. TETTAMANZI: Attualmente, ma in passato. e anche oggi, di nuovo, qualche Stato totalitario potrebbe esser tentato, o comunque domani. E noi vogliamo impegnarci perché il domani sia migliore, senza il rischio che tornino orrori del passato. A me pare dunque importante questa distinzione, perché il depenalizzare significa continuare a riconoscere che un comportamento è male, ma allo stesso tempo non ritenerlo tale da dover intervenire con una sanzione penale, senza però arrivare a una vera e propria legalizzazione, a una vera e propria autorizzazione. Un altro elemento che è emerso in questo discorso iniziale e che mi è parso interessante è quello del disprezzo della dignità degli anziani e quindi, uso questa terminologia, di forme di eutanasia molto più diffuse che non l'eutanasia, come chiamarla, classica, nella sua crudezza. FLORES D'ARCAIS: Parliamo tuttavia di due cose abissalmente diverse. Quella che lei chiama una eutanasia "non classica" degli anziani è semplicemente un omicidio, spesso efferato, compiuto contro la loro volontà. Ma qui abbiamo ribadito più volte di usare il termine eutanasia solo a proposito di un soggetto che è lui a chiedere, anzi a scongiurare, che venga abbreviata la sua vita. Chiamiamolo, se si preferisce, suicidio assistito, chiamiamolo eutanasia volontaria. L'importante è non fare nessun amalgama, anche solo verbale, tra cose che non hanno nulla in comune e sono anzi agli antipodi. TETTAMANZI: È chiaro che si tratta di due realtà diverse, o addirittura antitetiche. (...) Quanto al rapporto medico-paziente, sappiamo tutti come nella storia abbia regnato per secoli il famoso principio dell'efficienza che ha dato una grossa autorità al medico e solo più tardi sia subentrato un principio di autonomia che in qualche modo ha dato spazio al paziente. Però mi sembra che affermare che il medico sia al servizio del paziente possa ingenerare qualche equivoco, perché ancora una volta occorre vedere quale concezione ha il paziente di se stesso e della sua salute. (...) Per quanto riguarda Pio XII, mi pare che la descrizione che lei fa di un intervento medico che somministra analgesici fino a portare all'incoscienza, per poi interromperli e portare il paziente di nuovo a un momento di lucidità eccetera, non corrisponde affatto agli intendimenti di Pio XII. (...) Ad un gruppo di medici che gli avevano posto la seguente domanda: "La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo di narcotici è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente, anche nell'avvicinarsi della morte e se si prevede che l'uso dei narcotici abbrevierà la vita?", il papa rispose: "Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l'adempimento di altri doveri religiosi e morali: sì" (Allocuzione del 24-2-1957). In questo caso è evidente che non s'intende procurare direttamente la morte del paziente, ma piuttosto assisterlo lenendo il dolore in maniera efficace, ricorrendo agli analgesici messi a disposizione dalla medicina. Fatta questa precisazione, il problema, a mio parere, resta quello di una precisa distinzione tra l'eutanasia vera e propria e questi altri interventi, che con l'eutanasia possono quanto agli effetti venir confusi, ma che seguono una logica ben diversa e perfino contraddittoria con l'eutanasia. Abbiamo infatti l'accanimento terapeutico, che la morale non solo non sostiene, ma anzi rifiuta. La logica dell'eutanasia è di dire no alla vita quando la si ritiene insopportabile, la logica obiettiva dell'accanimento terapeutico è di dire di sì alla vita anche quando non dovesse riservare alcuna possibilità, si tratta quindi di due logiche assai diverse. Altrettanto si dica dell'uso degli analgesici. Non vedrei perciò una contraddizione tra il no al dolore e il no all'accanimento terapeutico, da una parte, e il no all'eutanasia dall'altro. FLORES D'ARCAIS: A me continua a sembrare che la posizione di Pio XII configuri un'antinomia: se è un diritto combattere la sofferenza anche con misure che hanno per conseguenza di abbreviare la vita, è il paziente che diventa l'unico soggetto a poter decidere sul quando e il come del porre fine alla sua tortura. In caso contrario si dà luogo a quella casistica di mostruose sottigliezze che io ho ipotizzato non certo per fare dell'ironia - perché parliamo di tragedie, e che potrebbero toccare ciascuno di noi - ma perché sono il portato logico di quella antinomia, fino all'orrore dell'eutanasia a rate. TETTAMANZI: A me pare che il giudizio morale debba essere dato non solo a partire dalle conseguenze di determinati gesti, ma innanzitutto in base al significato intrinseco e intenzionale dei gesti che si compiono. In questo senso, la distinzione tra risultato raggiunto e strada per raggiungerlo non è distinzione casuistica ma distinzione obiettiva e seria. Con l'analgesico si può arrivare anche ad abbreviare la vita e al limite a sopprimerla, ma un conto è se si tratta di un esito oggettivo indiretto, un conto se il gesto è compiuto con l'intenzione di essere finalizzato a questo scopo. Infine, l'alleanza tra medico e paziente implica che la decisione non sia mai solo dell'uno o dell'altro, l'alleanza è autentica quando entrambi fanno riferimento a qualcosa che li trascende. FLORES D'ARCAIS: Quando su una decisione si concorda non c'è problema, ma quando, malgrado tutto, non si concorda? Alla fine decide sempre qualcuno, e dunque si tratta di stabilire, in questi casi tragici, chi è tale uno. Sulla mia vita ho diritto a decidere io o ha diritto a decidere lei, o un medico, o la maggioranza dei parlamentari? La sua posizione è che non decido né io né lei (né un medico, né un parlamento) ma una istanza terza e oggettiva, una trascendenza. Ma chi la decifra e interpreta, la oggettività di questa trascendenza? Lei, io, il medico, il parlamento? Il problema non fa che spostarsi. Alla fine, presentandola come volontà propria o trasfigurandola come interpretazione di una oggettività trascendente, è sempre un singolo essere umano che decide.
Tratto da "La Repubblica" 30 gennaio 2001 |