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QUEL
GESTO D’AMORE
UMBERTO
VERONESI
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- Fossi stato uno dei giudici della seconda Corte d'Assise
d'Appello di Milano, anch'io avrei mandato assolto l'uomo accusato
di omicidio volontario premeditato per aver staccato la spina
dell'apparecchiatura che teneva in vita la moglie, in coma
irreversibile. Molti ora definiscono storica questa sentenza. Per
me è anche coraggiosa e lacerante perché tocca uno di quei temi
esplosivi e non soltanto perché determina schieramenti
ideologici, come sempre accade quando si trattano i grandi temi
della vita. Lacerante per la coscienza, per il diritto, per chi ha
una fede, per la stessa scienza medica. Una lacerazione che lo
stesso sostituto Procuratore Generale aveva confessato chiedendo
la condanna dell'uomo, ma invocando per lui una clemenza pietosa.
I giudici hanno sciolto il dubbio: l'omicidio non sussiste perché
non c’è la prova definitiva che la paziente al momento dello
stacco della spina presentasse ancora una benché minima attività
cerebrale. Ma io avrei assolto il marito perché lei si trovava in
uno stato vegetativo permanente, la cui connotazione principale è
la irreversibilità. La paziente può aprire e chiudere gli occhi
ma non risponde agli stimoli esterni, c'è l'assenza totale di
ogni segno della sua mente.
E’ andata perduta definitivamente la funzione psichica, la
sua coscienza, che più di ogni altra funzione identifica
l’essenza umana. Una commissione ministeriale, lo scorso anno,
aveva affrontato questo problema e aveva concluso che, già allo
stato attuale della legislazione, era legittimo «staccare la
spina», cioè era legittima la sospensione di quegli atti medici,
come l'idratazione e la nutrizione artificiale con i quali il
paziente in stato vegetativo permanente viene tenuto in vita.
Sempre la commissione indicava le precauzioni che dovevano essere
rispettate prima di interrompere quell'accanimento terapeutico.
Rispettare la volontà espressa dal paziente, innanzitutto e,
quando non espressamente detta, la volontà ricostruibile
attraverso le testimonianze dei parenti più stretti. Nel caso di
Milano la donna non aveva manifestato alcuna volontà, ma il
marito ha sostenuto di «aver fatto quello che penso che mia
moglie avrebbe voluto le fosse fatto in quella situazione».
In queste parole credo che stia la vera lacerazione di coscienza:
in linea di principio io penso che ogni uomo ha diritto di
decidere sulla propria sorte, quando e se continuare la propria
esistenza su questa terra. Ognuno è libero di scegliere il
proprio destino e di decidere di porre fine alla propria vita se
le sofferenze diventano intollerabili o se la vita diventa non
vita, un tronco vegetale. Come diceva Seneca, «Importante è
vivere con coscienza, non vivere a lungo». Sono consapevole che
questo principio è condivisibile all'interno di una cultura
laica, che considera l'uomo padrone della propria esistenza, e non
all'interno di una cultura cattolica che considera l'uomo una
creazione divina, che la vita e il corpo che possediamo sono
soltanto un dono divino di cui non possiamo disporre in alcun
modo.
E tuttavia anche la Chiesa Cattolica si è espressa contro
l'accanimento terapeutico e in questa posizione c'è una sottile
contraddizione. Il cattolico, da una parte, è contrario
all'eutanasia perché essa accelera il processo di morte;
dall'altra parte è favorevole alla sospensione degli eccessi
terapeutici che hanno proprio il compito di prolungare la vita. Ma
nel momento in cui si sospende l'accanimento terapeutico verso un
paziente gli si abbrevia la vita, cioè in ultima analisi si
applica l'eutanasia.
Una decisione lacerante, come sempre.
Scegliere per chi amiamo l'eutanasia può essere un gesto di
coraggioso amore, una dimostrazione che il nostro amore per la sua
vita, ora sofferente, va oltre il nostro bisogno della sua
presenza. L'eutanasia, prima di essere eutanasia, è comprensione
assoluta, è quell'amore che sempre dovrebbe esserci tra un uomo
che soffre e chi lo assiste. Se c'è questa comprensione, se c'è
quel rapporto personale tra medico e paziente, intimo e profondo,
la mia esperienza di medico mi dice che l'eutanasia diventa un
tema meno impellente.
Se curato bene, senza dolori, con amore, il paziente difficilmente
chiede di morire. Se il malato terminale non viene abbandonato
alla solitudine e allo strazio del dolore, se le cure palliative
fossero pratica più diffusa, daremo a questo problema lacerante
una soluzione degna e civile. Tutto ciò nel rispetto assoluto
della libertà del malato a scegliere il proprio destino.
Tratto da "Il Corriere della sera"
25 aprile 2002
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