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Eutanasia omicidio o
pietas? di Mirella Camera
LA CRONACA HA APERTO
UN DIBATTITO CHE NON SI PUÒ ELUDERE. MA CHE NON DEVE ESSERE TRATTATO
A COLPI DI SLOGAN. Come molte altre questioni scomode, quella dell’eutanasia ha ormai da anni l’andamento di un fiume carsico: appare e scompare periodicamente dal dibattito pubblico a seconda dell’attenzione che la cronaca le concede. Ultimamente se n’è parlato parecchio in occasione dell’approvazione definitiva da parte del Senato olandese della legge che la regolarizza (i dettagli nel box a pag. 41) e della provocatoria presa di posizione di Marco Pannella, che aveva dichiarato di voler personalmente provvedere a liberare il suo amico ed ex compagno di partito Emilio Vesce, in stato vegetativo da mesi, dalla «violenza a cui la legge italiana lo costringe». In entrambi i casi si sono sentiti, da una parte e dall’altra, argomenti tagliati con l’accetta, slogan e parole d’ordine. Invece mai come in questo argomento, nel quale s’intrecciano in maniera indistricabile vita e morte, legge e coscienza, pietà e rispetto per la vita, è necessario andare coi piedi di piombo. Cominciando dal termine, eutanasia (dal greco eu-thanatos, "buona morte"), che nel linguaggio comune mescola insieme atti diversi che, invece, è necessario distinguere molto bene. Se infatti sono tutti d’accordo sul principio di rigettare l’accanimento terapeutico e quindi di astenersi da ulteriori cure quando ormai è tutto inutile, il problema inizia già nel momento in cui si cerca di tradurlo nei fatti: è accanimento terapeutico anche l’alimentazione e l’idratazione che prolungano l’agonia? E ancora: è già eutanasia la dose di morfina necessaria a domare il dolore ma che accelera la fine? Andando oltre, le domande scaturiscono a grappolo. Chi deve decidere, in caso di incoscienza del malato: il medico, la famiglia o la legge? E se, viceversa, un malato lucidissimo e molto sofferente chiede di morire, diventa lecito dargli una mano? Se poi ci sono indicazioni scritte e precise, il medico deve dar retta a queste o alla norma? Sembrerebbe, a questo punto, che una legge un po’ più adeguata di quella che c’è ora, vada ripensata. Queste situazioni, infatti, sono il frutto della capacità che la scienza medica ha acquisito nel prolungare artificialmente la vita. Quando la medicina era più limitata, lasciava morire la gente "meno difficilmente". Ma se, una volta approvata una legge, questa diventa un piano inclinato verso una morte troppo facile e comoda? Non sarebbe la prima volta che una norma pensata come una sorta di eccezione per pochi, diventa poi una routine che banalizza tutto. Il sospetto è legittimo anche visto che, a due giorni dall’approvazione della legge, in Olanda si è subito proposto di rendere legale anche la "pillola del suicido" per quegli anziani che, semplicemente, non hanno più voglia di vivere. Senza nemmeno essere malati.
«Dottore, mi aiuti a morire» Qualche anno fa (nel ’97) la Fondazione Floriani di Milano, pioniera delle cure palliative per i malati terminali di cancro, fece un’indagine che scosse l’opinione pubblica: non solo 600 medici, vicini ai malati terminali, dichiararono di aver ricevuto spesso dai loro pazienti richieste di eutanasia, ma di averle esaudite nel 4% dei casi. Dunque esiste già una prassi sommersa anche se il medico che pratica l’eutanasia rischia dai 6 ai 15 anni di carcere. I casi in cui s’invoca questa soluzione sono generalmente di due tipi: una malattia incurabile terminale (di solito tumorale), o uno stato vegetativo irreversibile (causato da traumi interni o esterni). Entrambi pongono questioni etiche e giuridiche di lana caprina. Per quanto riguarda il primo caso, che è anche il più comune, il fulcro del discorso è la sofferenza. A che scopo, ci si chiede, protrarre la vita di chi è comunque destinato a morire nel giro di un breve tempo (per terminale si indica generalmente chi non ha più di un paio di mesi), soprattutto se patisce dolori insopportabili? Se oltretutto è cosciente e lo chiede insistentemente? O, nel caso sia incosciente, abbia manifestato chiaramente questa intenzione in precedenza? «A questa richiesta di eliminare il dolore fisico, oggi si è in grado di rispondere adeguatamente», sostiene il professor Giorgio Di Mola della Fondazione Floriani, «soprattutto dopo che il ministro Veronesi ha liberalizzato l’uso delle cure palliative». Un tempo per utilizzare morfina e oppiacei c’erano mille ostacoli legali: per esempio, non potevano essere trasportati nemmeno dall’infermiera incaricata della cura domiciliare (i malati terminali spesso vengono dimessi dall’ospedale). Ma rimane ancora un grosso problema di cultura medica: l’utilizzo delle cure palliative non è tanto diffuso. Ci sono delle équipe specializzate che fungono da avanguardia, però gran parte degli ospedali pubblici è "scoperta". E poi la legge è ancora troppo recente per aver già cambiato in profondità le abitudini. Quindi il dolore, per il momento, c’è. Per quanto riguarda invece il living-will, cioè il testamento biologico, che all’estero è già entrato nella cultura sanitaria comune, e cioè quella dichiarazione con la quale il paziente stesso dà precise indicazioni su come vuole essere trattato nel caso di stato di incoscienza, certamente è uno strumento utile, ma rischia di diventare sbrigativo. «Sulla base della mia esperienza», afferma la dottoressa Claudia Borreani, psicologa all’Istituto dei tumori di Milano, «direi che è irrealistico considerare una decisione così grave, e influenzata profondamente dal proprio attuale vissuto, come irreversibile. Capisco che può essere più semplice risolvere così il problema della decisione, però non si tiene conto che la persona si adatta continuamente a ciò che le succede. Anche alla malattia. Se è vero che molti, dopo aver appreso di essere malati di cancro, manifestano il desiderio di non prolungare la vita se verranno meno alcune condizioni, a mano a mano che procedono nella malattia e ne fanno esperienza, cambiano prospettiva. Soprattutto nel caso che ci sia un accompagnamento attento, sia da parte della famiglia che dei sanitari; e, naturalmente, che la sofferenza sia tenuta sotto controllo, cosa che oggi è assolutamente possibile». Dunque la chiave di volta della buona morte sembra essere lo sviluppo di questo concetto di "accompagnamento", sia attraverso il controllo del dolore, sia con un supporto psicologico che comprenda anche la famiglia. Se non altro per abbattere al minimo la richiesta di eutanasia. Non è vita, non è morte Lo stato vegetativo pone interrogativi più complessi. Crudelmente si potrebbe dire che è il capolavoro della scienza medica: tenere in vita un corpo senza più la persona che lo ha abitato un tempo. Eluana Englaro è un caso tipico: 29 anni, vive dal 18 gennaio del ’92 in questo stato dopo un incidente stradale. Non ha più sensibilità né coscienza perché la sua corteccia cerebrale, sede delle facoltà superiori, è morta. Ma il tronco cerebrale, la parte vegetativa del cervello, ancora funziona: e la fa respirare, digerire ciò che la sonda le introduce nello stomaco, aprire e chiudere gli occhi al ritmo della luce e del buio, contrarre i muscoli a volte in modo continuo e spasmodico. I genitori, dopo un periodo di speranza, ormai reclamano solo un legittimo lutto. Hanno chiesto al giudice se potevano liberare la loro figlia dalla morsa di quel limbo: ma la legge non lo consente, perché Eluana non è tenuta in vita da terapie ma semplicemente alimentata; se le venisse un’infezione si potrebbe legittimamente non curarla, ma non si può sospendere un atto necessario alla vita come l’alimentazione. Opposta è la posizione della famiglia di un’altra donna, anziana, ugualmente in stato vegetativo. «La mamma è al centro delle nostre cure e della famiglia», hanno detto i figli. «Quando ci sono delle feste la portiamo a tavola con noi, le parliamo, la coccoliamo. Le continuiamo a dare tanto amore e sappiamo che non è sprecato». Che dire di fronte a casi tanto diversi? Chi decide? La famiglia, a seconda della sua sopportabilità o della sua fede? Si entra in un ginepraio di motivazioni. E sono sempre possibili anche quelle meno nobili. «Non mi sento di definire "vita" questo estenuante prolungarsi di una serie di funzioni automatiche del corpo», dice ancora il professor Di Mola, «ma nemmeno la scienza medica oggi trova l’accordo su cosa è vita e cosa è morte. Per alcuni medici la morte del cervello è quella della corteccia cerebrale, per altri è tutto il cervello, anche il tronco. Le definizioni dipendono da molte cose: un tempo la morte si accertava in base alla cessazione del battito cardiaco, poi è stata ridefinita come "morte clinica", e viene stabilita dal cervello. Tanto è vero che, in caso di trapianto di cuore, questo viene espiantato ancora battente. In Giappone accettare questo fu faticoso: la cultura buddista infatti considera l’uomo come un intero, si rifiuta di obbedire a una logica di partizione. Ma persino una buona parte di studenti di medicina statunitensi, dice una ricerca, mette in discussione il principio della morte cerebrale». Quindi la ridefinizione del concetto di morte è tutt’altro che scontato. Ma senza definizioni esatte come si può stilare una norma? «Per questo sono contrario a una legge che stabilisca le condizioni dell’eutanasia», continua Di Mola. «È troppo labile il confine della vita e della morte. Meglio affidarsi al buon senso, alla sensibilità e alla conoscenza del medico, per quei rari casi in cui viene richiesta».
La legge, il buon senso e la morale cattolica La legge italiana, che peraltro assomiglia a quella di moltissimi altri Paesi, assimila l’eutanasia all’omicidio, sia pur con le attenuanti del caso. Poiché ogni legge ha un margine d’interpretazione, anche piccolo, sono molti a pensare che sia meglio utilizzare questo spazio con buon senso piuttosto che fare una nuova legge che difficilmente può contemplare tutte le sfumature di casi così complessi. Insomma, arrangiare un po’ le cose all’italiana, magari aiutati da uno strumento che bisogna cominciare a diffondere, il testamento biologico. Un modo per chiarire molti casi e un atto di carità verso chi rimane e si deve prendere la responsabilità delle decisioni. Ma c’è anche chi, credente, non si fida del buon senso (magari altrui) e preferirebbe un riferimento morale sicuro. Malgrado le parole chiare e definitive del Catechismo della Chiesa cattolica che ribadisce il suo "no" all’eutanasia (Cap. 2.276 - 2.279), il tema continua a essere dibattuto all’interno della comunità cristiana. Nello stesso Catechismo si legittimano atti che procurano la morte: è il caso della pena di morte e della difesa armata della comunità civile (Cap. 2.266). Il principio di non uccidere non è – sostengono autorevoli teologi e studiosi cattolici – da considerarsi come assoluto. Commenta il professor Sandro Spinsanti, teologo e membro del Comitato nazionale di Bioetica: «L’affermazione perentoria secondo cui la vita è un valore supremo, non solo non è corretta secondo la tradizione cristiana, ma è addirittura idolatra: per il credente infatti, possono esserci valori superiori per i quali si può sacrificare la vita: la testimonianza, per esempio, o la salvezza di un’altra persona». «Se vogliamo essere un po’ provocatori», continua Spinsanti, «ricordiamo che la Chiesa, accogliendo come santa Maria Goretti, ha indicato persino la verginità come valore superiore a cui sacrificare la vita. La domanda che dobbiamo porci oggi, quindi, è questa: tra i valori in nome dei quali è giusto sacrificare la vita non c’è per caso, anche la stessa sua dignità e umanità? Un concetto che è già ben presente nei documenti indirizzati agli operatori sanitari, ma sul quale bisognerebbe ulteriormente lavorare». Il dibattito continua. Mirella Camera
Tratto da "Club 3" n.6, giugno 2001 _________________________________________________________________ |