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Il diritto contro l'accanimento


Il dibattito sulla legalizzazione dell'eutanasia ha bisogno di una corretta informazione. Per garantire una battaglia di civiltà. Gli insegnamenti del «caso Vesce»


Gabriella Gazzea Vesce

 


E'importante una corretta informazione su eutanasia e accanimento terapeutico, dibattito che in Italia si sta aprendo per depenalizzare l'Eutanasia (medici che aiutano un malato consenziente a mettere fine alla propria vita con una «dolce morte», non dovrebbero essere considerati colpevoli di «omicidio»). Il caso del signor Forzatti, ha poco o nulla a che vedere con «l'eutanasia»: quando si parla di «eutanasia» si deve intendere la morte di sé, nessuno la può chiedere per una persona diversa da sé. Purtroppo la disinformazione, la confusione, le mistificazioni creano solo paure e tabù. Nella trasmissione di martedì scorso di Porta a Porta, persino il prof. Manheimer (e non me lo sarei mai aspettato da un professionista) ha clamorosamente sbagliato la domanda «Lei praticherebbe l'eutanasia a un suo familiare?» errore davvero grossolano, per non parlare poi dell'on. Mussolini, dell'on. Turco: non è corretto parlare di «eutanasia», pensando e riferendosi sempre alla «morte degli altri», e non di eutanasia si tratta quando si paventa lo sterminio praticato dallo stato nazista dei disabili, o ci si riferisce a bambini, vecchi (gli «altri», sani o terminali?), con una leggerezza e ignoranza davvero colpevoli in parlamentari della Repubblica, come se la parola «eutanasia» volesse significare omicidio di «altri» per comodità, interesse, crudeltà. No.



Contro l'accanimento

L'eutanasia per ciascuno di noi, è la richiesta (o meno) di porre fine a una tragedia senza speranza, quando la morte (che capita a tutti nella vita) può essere dolce, la morte di sé. E' errato scrivere nei giornali: «Assolto per eutanasia praticata alla moglie....», il signor Forzatti è stato assolto (in appello) perché ha impedito la continuazione di un accanimento terapeutico, costretto dalla disperazione a fare, quello che i medici sarebbero stati obbligati a fare. La Corte d'Appello di Milano ha deciso che non c'era «reato».

Il «reato» paradossalmente è stato sventato dal signor Forzatti che ha interrotto una situazione di accanimento che si andava perpetrando su sua moglie, per rispettarne la vita e le volontà. Un atto disperato d'amore.Sappiamo anche che altri giudici, altre corti, pilatescamente non riescono a decidere nulla sul caso di Eluana Englaro, da dieci anni in SVP, abbandonando i familiari in una specie di girone infernale e situazione kafkiana. Abbiamo visto, sempre su Porta a Porta, il ricordo dell'on. Andreatta, certamente i familiari ritengono di «rispettare» le volontà del prof. Andreatta, e hanno il diritto e la libertà di farlo.Con i miei figli, con l'aiuto determinante, umano, politico e fondamentale di Marco Pannella e dei radicali (che con l'associazione Exit da anni sono impegnati per l'introduzione in Italia della legge su testamento di vita e depenalizzazione dell'eutanasia) con Emilio, per il rispetto della sua vita, del suo impegno nella difesa dei diritti e la libertà, abbiamo ritenuto un imperativo morale portare alla luce la situazione incredibile e atroce che vivono le persone in Stato Vegetativo Persistente e i loro familiari per una battaglia politica di civiltà.

Le persone in SVP, «condannati a non morire» e i loro familiari «condannati a non vivere», imprigionati ad impedire la decomposizione e deformazione del corpo della persona amata (che è già morta)

e che mai avrebbe voluto «vivere» senza coscienza e senza speranza, complici anch'essi atrocemente e disperatamente di accanimento - privati del diritto di piangere una morte - vivono per mesi, anni una condizione di quotidiana follia, che provoca malattia, sensi di colpa, non-vita. Ci si deve domandare se «l'accanimento terapeutico» in Italia è un reato, un peccato, un errore, o malasanità? Proprio a partire dai casi come quello di Emilio, di Eluana, della signora Forzatti, del prof. Francesco De Ponte (in SVP da tre anni e due mesi) e di moltissime altre persone e dei loro familiari: è «lampante» la violazione dei diritti fondamentali della persona e del codice di deontologia dei medici. Ma di chi è la responsabilità?

C'è una completa, totale irresponsabilità delle istituzioni, una grave latitanza della politica, e bugie, segreti, confusioni nell'informazione. Se «pilatescamente», forse in buona fede, non si nascondessero e mistificassero queste atrocità, se a un procuratore venisse in mente di aprire una «inchiesta» sulle condizioni delle persone ricoverate nei reparti speciali comi, forse le Assicurazioni dei medici si potrebbero trovare nella situazione del clero americano, a dover pagare miliardi di risarcimenti ai familiari delle persone in SVP, vittime di malasanità.

Il ministro Sirchia sta «temendo» e forse (checché ne pensi l'on. Mussolini) corre ai ripari proponendo una specie di «testamento di volontà»... Il ministro Sirchia, medico, scienziato, ricercatore: «assolutamente contrario all'eutanasia e assolutamente contrario all'accanimento terapeutico», scopre «l'acqua calda», mette le mani avanti conoscendo perfettamente il codice di deontologia dei medici...

A Padova il Reparto Speciale Comi dell'Ospedale Geriatrico in un anno è passato da 12 posti letto a 16, ed è in programma l'apertura di un altro reparto di venti posti letto (sorvolo sulla violazione dei diritti del malato in questi reparti). Altre persone in SVP sono ricoverate (a pagamento) negli Istituti per anziani non autosufficienti. Da quando abbiamo scoperto questa realtà, che non si può nemmeno lontanamente immaginare se non la si vive personalmente, i miei figli, io, i nostri amici, giriamo con in tasca una «disposizione di volontà» che dice: «se dovessi trovarmi in SVP desidero vengano rispettati gli artt. 14 - 32 -34 del Codice di Deontologia, desidero donare gli organi». La diagnosi di SVP per le persone colpite da anossia cerebrale (secondaria a infarto, arresto cardiaco) è possibile (per la sempre più sofisticata strumentazione diagnostica) in tempi sufficientemente brevi, più tempo occorre per i traumi cranici, perché il danno cerebrale può essere, per fortuna, anche limitato, o parziale o reversibile (e anche in sempre più rari casi c'è un margine di errore di diagnosi, e poi ci sono anche i miracoli).

Riporto qui tre articoli del Codice Deontologico: Art. 14 - il medico deve astenersi dall'ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita. Art. 32- il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l'acquisizione del consenso informato del paziente. Art. 34 - Il medico deve attenersi, nel rispetto della dignità, della libertà e dell'indipendenza professionale, alla volontà di curarsi, liberamente espressa dalla persona. Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tener conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso. I casi delle persone in SVP e dei loro familiari - per i progressi scientifici e tecnologici e per la medicina d'emergenza - sono emblematici e inquietanti: progressi scientifici, 118 usati come clave: «disumanizzazione» della sanità, «frantumazione della persona, considerata un insieme di organi», «espropriazione delle proprie volontà», «delirio di onnipotenza», «irresponsabilità delle istituzioni», «latitanza della politica», «assenza di pietas umana e cristiana».

Il potere dei medici

Quotidianamente i medici hanno a che fare con la morte, decidendo di praticare o no terapie, interventi, e loro compito è curare e guarire le persone, e accompagnarle, se non c'è più speranza di cura o beneficio della qualità della vita, nella maniera più dolce e indolore possibile alla morte, molti lo fanno, altri pensano di poter «distruggere la morte». L'eutanasia passiva corrisponde semplicemente alla morte naturale, senza accanimenti, e possibilmente (Italia molto in ritardo nella terapie palliative) alleviando il dolore.

Nelle strutture sanitarie il cardiologo, il nefrologo, l'infettivologo, il pneumologo curano e guariscono organi di una persona decerebrata (caso Vesce), poi, senza che i familiari siano informati sulla effettiva gravità del danno cerebrale e sulla prognosi, si praticano (senza chiedere il consenso a nessuno) due operazioni chirurgiche (tracheotomia per respirare, gastrotomia per l'alimentazione) per poter «stabilizzare» una persona in Stato Vegetativo Persistente e trasferirla in un Reparto Speciale Comi dove viene «custodita» per anni, a costi economici per la collettività molto elevati, ma che sono nulla se confrontati ai costi umani e sociali. L'apertura e l'espansione di questi reparti, la loro stessa esistenza pongono alla classe medica, alla classe politica pressanti e urgenti assunzioni di responsabilità. La depenalizzazione dell'eutanasia, la legalizzazione del testamento di vita (Living Will) è fondamentale e vitale per ciascuno di noi, non ha colori politici, è trasversale, e, il calvario della morte di Emilio - il caso Vesce - potrebbe servire ad aprire un dibattito onesto e la riflessione per una battaglia di civiltà, di pietà umana e cristiana, per il rispetto della libertà, dei diritti e della vita di ciascuno, e perché i medici abbiano norme certe.

Ma io sono d'accordo con l'eutanasia? Certamente sì per la depenalizzazione, anche se spero di non doverla chiedere, e di morire (perché mi toccherà) senza soffrire, ma voglio avere anche la possibilità di essere aiutata, se non potessi più sopportare la vita. Contro l'accanimento e una vita vegetativa, porto sempre con me, nel tesserino sanitario, il bigliettino con le mie volontà, per le strutture e i medici che dovessero avermi in cura.

 

 

Tratto da "Il Manifesto" 11 maggio 2002

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