<<<-salva o stampa il file, leggerai con più comodo

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

.

 

Una certa insofferenza della legalità

RAGIONI DELLA LEGGE RAGIONI DEL CUORE



CLAUDIO MAGRIS

 
Una recente sentenza, che ha assolto un uomo accusato di avere staccato il respiratore che teneva in vita la moglie da mesi in coma irreversibile (e in condizioni tali da indurre i giudici a dubitare che potesse essere considerata viva), è stata comprensibilmente accolta da un consenso pressoché unanime. I giudici sono stati lodati per aver saputo risolvere umanamente - ancorché ricorrendo a un espediente giuridico probabilmente fragile - un caso estremo di conflitto tra una intollerabile disperazione individuale e la norma che, tutelando universalmente l’esistenza e i diritti di ognuno, vieta di uccidere. È bene che quei giudici abbiano trovato il modo di non aggiungere inutilmente dolore a dolore. Molti commenti favorevoli a quella sentenza hanno tuttavia avuto dei toni sconcertanti e hanno rivelato una mentalità sempre più diffusa e preoccupante, una insofferenza per la legge in generale e per le sue norme. Non si è visto in quel verdetto una tragica eccezione da accettare per la tragicità di quella situazione eccezionale, ma quasi una festosa vittoria delle ragioni del cuore su quelle della legge, il momento liberatorio di un processo che dovrebbe portare a indebolire sempre di più la forza cogente del diritto per ascoltare sempre di più la voce di ogni singolo individuo, il suo irripetibile e ineffabile stato d’animo che lo induce a compiere le sue azioni, pure quelle che ledono gravemente le norme e anche le persone. Non si tratta solo dell’eutanasia, che è un aspetto fra i tanti, ma di ogni comportamento dell’individuo dinanzi ai drammi dell’esistenza. La legge, si è sentito ripetere, «non può contenere tutta la vita, le sue infinite pieghe e le sue inestricabili complicazioni, le sue scelte tragiche e i suoi dilemmi».
Tutto questo è vero, anzi ovvio. Se Pascal diceva che la ragione non conosce tutte le ragioni del cuore, nemmeno il codice civile e quello penale possono pretendere di conoscere e classificare tutte le sfumature dell’anima e dei suoi grovigli. Non è in primo luogo l’osservanza di una legge, umana o religiosa, a fare di un uomo un uomo, a infondergli la capacità di discernere il bene dal male, di vivere liberamente il proprio rapporto con gli altri, con se stesso e col proprio destino. La vita di un individuo - la sua passione, la sua paura, la sua forza di amare o la sua aridità, gli dèi che venera e i fantasmi che lo perseguitano - scorre al di qua o al di là di ogni legge, faccia a faccia con l’inconcepibile e abusivo mestiere di vivere, vero e proprio lavoro nero.
Ma tutto ciò non svaluta la legge. Il diritto non è un gretto appiattimento delle diversità e delle inestricabili complicazioni umane; non ignora che ogni individuo è un abisso unico e spesso insondabile di sentimenti e si trova coinvolto in contraddizioni irripetibili. Ma, a differenza di chi declama le profonde ragioni del cuore pensando in realtà che esista solo il suo cuore, la legge parte da una conoscenza più profonda del cuore umano, perché sa che esistono tanti cuori, ognuno con i suoi insondabili misteri e le sue appassionate tenebre, e che proprio per questo solo delle norme precise, che tutelano ognuno, permettono al singolo individuo di vivere la sua irripetibile vita, di coltivare i suoi dèi e i suoi démoni, senza essere impedito né oppresso dalla violenza di altri individui, come lui preda di inestricabili complicazioni del cuore ma più forti di lui. La legge è come la democrazia: è un valore freddo, una regola che non penetra il mistero della vita, ma consente a ognuno di vivere il proprio mistero, la propria passione, il proprio delirio.
Certo, nessuna norma generale può capire - e dunque veramente giudicare - i sentimenti, le pulsioni, le contraddizioni che sono alla base di ogni gesto criminoso, anche il più efferato e bestiale.
La ragione non conosce a fondo le ragioni del cuore che spingono il torturatore del lager a straziare le sue vittime, ma semplicemente sa che pure quelle vittime hanno un cuore che ha diritto di vivere e dunque che è necessario impedire e punire, con una norma generale, il gesto di quel torturatore.
Nel vecchio bellissimo film Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang, l’assassino di bambine rivendica con accenti strazianti la sua diversità, le tempeste del suo animo che lo spingono a quegli atti infami - le sue «inestricabili complicazioni» del cuore sono realmente dolorose, ma sono indifferenti al dolore altrui, che invece la legge ascolta, condannando l’assassino per impedire altro dolore.
La ragione - e la legge - hanno spesso più fantasia del cuore, capace solo di sentire le proprie «inestricabili complicazioni» e incapace di immaginare che esistano pur e quelle altrui. Il cuore, diceva Manzoni, sa assai poco, appena un po’ di ciò che gli è stato raccontato; spesso è tutta una gran confusione, come scrive Stefano Jacomuzzi. Qualificare l’omicidio o il furto come reati non basta per capire i diversi motivi per i quali diverse persone li compiono, ma chi si appella a ineffabili motivazioni dell’animo per sfuocare la gravità di quei reati capisce ancor meno le persone che li commettono. Il legislatore che punisce la corruzione negli appalti pubblici è un artista che sa immaginare la realtà, perché in quella corruzione vede non l’astratta violazione di una norma ma, ad esempio, le cattive attrezzature di cui - causa quella corruzione - viene dotato un ospedale, in luogo di quelle efficaci che esso avrebbe avuto grazie a un’asta corretta: dietro quel reato ci sono dunque malati curati peggio, individui concreti che soffrono.
Solo la capacità di astrarre permette di capire la concretezza della vita, di sapere che esiste anche la vita concreta di chi in quel momento non possiamo vedere né toccare. La democrazia è poetica, è ricca di fantasia, perché ci fa sentire che esistono individui che non vedremo mai, e di cui giustamente non ci importa nulla, ma che hanno il nostro stesso diritto di vagabondare, sognare, delirare. Chi sa vedere solo l’immediatezza, non vede niente; chi vede solo gli alberi davanti a lui, e non è capace di pensare il bosco, non sa cosa siano quegli alberi, che magari s’illude di conoscere bene. A chi dice, stoltamente o truffaldinamente, che per capire la mafia bisogna essere siciliani, Sciascia risponde, nel Giorno della civetta , col suo capitano Bellodi che - proprio perché viene da lontano, da Parma, e ha militato nella Resistenza e non nel Movimento autonomista siciliano - capisce la mafia meglio di chi le vive accanto, dei mafiosi stessi e talora, come accade nei buoni libri, dello stesso scrittore.
Indebolire la legge, in nome dello spontaneo processo della vita che in tutti gli àmbiti - individuale, politico, economico, sociale - procederebbe per il meglio significa solo lasciare i deboli alla mercé dei forti, spianare la strada alla violenza e all’ingiustizia, abbandonare la realtà all’arbitrio del più potente. Una cosa è sfoltire l’intricata selva di leggi che finiscono per essere di ostacolo a se stesse, un’altra cosa è voler sottrarre - come spesso tende a fare pericolosamente e talora sfacciatamente il nostro governo - al controllo della legge àmbiti e azioni da cui può dipendere l’esistenza delle persone. La crescente complessità e la scala sempre più vasta dei fenomeni e delle relazioni politico-sociali-economiche rende ancor più necessario il controllo del diritto e uno Stato che renda efficace tale controllo a difesa dei deboli, a tutela dell’ambiente, a protezione della vita di tutti. Il modello può essere l’impero romano, con la sua legge, non il Far West dei pistoleros , caro agli ultras anarchici del liberismo selvaggio. Abbiamo e avremo sempre più bisogno di certezza del diritto.
Un altro sofisma è quello, continuamente ripetuto, secondo cui la legge dovrebbe adeguarsi al sentire comune e conformarsi all’evoluzione della realtà - termine assai vago, perché non si capisce cosa sia questa realtà cui ci si dovrebbe conformare come se si fosse fuori di essa, mentre invece la realtà è il risultato del continuo confronto in cui ognuno, concorrendo così a formarla, afferma i propri valori. Secondo quel sofisma, bisognerebbe punire di meno o non punire più un reato quando esso viene praticato su larga scala. In base a questo principio, durante la Repubblica di Weimar i giudici simpatizzanti col nazismo cercavano di non applicare le norme che punivano le violenze antisemite, sostenendo che esse non corrispondevano più al sentire comune dei tedeschi.
Quanto più un reato si diffonde, tanto più occorre perseguirlo, se si pensa che vìoli i diritti dei cittadini, quanto più la criminalità aumenta, tanto più occorre reprimerla, per tutelare i cittadini, e ciò vale per il furto, la corruzione, la concussione, la rapina, la violenza ad ogni specie - compresa quella bestiale commessa in nome del calcio - l’abuso di potere da parte di organi dello Stato, l’istigazione all’odio razziale. Quando il terrorismo si è maggiormente diffuso e sembrava accettato più del consueto, negli anni Settanta, è stato giusto intensificare la sua repressione, così com’è stato necessario reprimere la corruzione quando essa stava diventando un costume quasi abituale. Un crimine è tanto più nocivo - e va tanto più perseguito - quanto più si diffonde; mille rapine non possono indurre a tollerarle come un’abitudine.
La legge non esaurisce certo le esigenze della coscienza, ma è anche il tentativo di calarle concretamente nella realtà, facendo malinconicamente i conti con i limiti e i compromessi di quest’ultima. Le sue ragioni sono diverse da quelle del cuore, ma non necessariamente loro nemiche. Sappiamo bene come i cavilli giuridici possano favorire la peggiore ingiustizia.
Ma anche il formalismo apparentemente più arido può venire talora in soccorso del cuore. Nel Mercante di Venezia , Porzia si accorge che l’amato Bassagno è turbato per la sorte dell’amico Antonio e lo libera da questo turbamento salvando Antonio dal terribile contratto con Shylock grazie ad un espediente cavilloso, ma posto al servizio dell’umanità.
La sua sottigliezza giuridica salva anche l’amore: «Voi non giacerete accanto a Porzia con l’animo inquieto», lei aveva detto infatti allo sposo, vedendo che il dolore per l’amico gli inceppava il pieno abbandono alla felicità amorosa. E’ quel formalismo sofisticato che, sciogliendo il dramma, ridona ai due amanti la libertà della passione.

 

 

Tratto da "Il Corriere della sera" 13 maggio 2002

_________________________________________________________________