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Gli interventi di Biffi e Martini sull'immigrazione


a cura di Domenico Manaresi

 


INTRODUZIONE

Il 12 settembre 2000, il card. Giacomo Biffi legge, durante la “Tre giorni del clero”, la “Nota pastorale” (che ha suscitato tanto scalpore) in cui esplicitamente afferma che lo Stato dovrebbe privilegiare l’immigrazione dei “cattolici”.   Confesso che – unitamente a molte altre persone - fui colpito dalle parole che (almeno quelle del III capitolo) non mi apparvero essere conformi allo spirito del Vangelo: pensai che un Episcopo non avrebbe potuto esprimersi in modo più infelice.

Ora invece - dopo aver letto l’intervento che il suddetto nostro cardinale Giacomo Biffi ha letto il 30 settembre 2000 al Seminario della Fondazione “Migrantes” - confesso che debbo ricredermi: come recita un antico adagio, al “peggio” davvero non c’è limite!!

Le parole che Biffi ha diffuso in detto Seminario ( e che riporto qui di seguito) mi sembrano decisamente più dure di quelle espresse nella “Nota pastorale”. Sono parole che in modo molto esplicito e senza mezzi termini sembrano non lasciare via di scampo all’Islam e ai fedeli musulmani!

Confesso che, nel sottoscritto, grande disagio ha provocato in particolare quel continuo “sparar giudizi” del nostro Vescovo, con una sicumera che farebbe presupporre una profonda conoscenza del Corano, dell’Islam nelle sue varie forme… può essere, ma ho qualche dubbio su questo far di ogni erba un fascio.

Il confronto poi con quanto scrisse 10 anni fa, il 6 dicembre 1990, il cardinal Martini, (riporto qui di seguito anche questo scritto) beh questo ha creato in me un vero e proprio “shock”….a chi credere, a chi dar retta per quanto concerne il rapporto che il buon cristiano-cattolico dovrebbe avere col mondo islamico??  Alla pacatezza, alla ricerca di dialogo di Martini oppure all’integralismo, alla apodittica durezza di Biffi?  A voi una risposta….

Shalom a tutti, ma proprio a tutti…a quei TUTTI cui credo si riferisca Paolo quando afferma (Efesini 4,6):”…un solo Dio Padre di TUTTI, che è al di sopra di TUTTI, agisce per mezzo di TUTTI ed è presente in TUTTI…”

Domenico Manaresi

 

 

SULLA IMMIGRAZIONE

Card. Giacomo Biffi

Intervento al Seminario della Fondazione “Migrantes”

In controcopertina

“Purtroppo né i "laici" né i ''cattolici'' pare si siano finora resi conto del dramma che si sta profilando. I "laici", osteggiando in tutti i modi la Chiesa, non si accorgono di combattere l'ispiratrice più forte e la difesa più valida della civiltà occidentale e dei suoi valori di razionalità e di libertà: potrebbero accorgersene troppo tardi.

I "cattolici", lasciando sbiadire in se stessi la consapevolezza della verità posseduta e sostituendo all'ansia apostolica il puro e semplice dialogo a ogni costo, inconsciamente preparano (umanamente parlando) la propria estinzione.

La speranza è che la gravità della situazione possa a un certo momento portare a un efficace risveglio sia della ragione sia dell'antica fede”.

 

INDICE

 


1)     Premessa

2)     Un fenomeno che ha sorpreso lo Stato

3)     Ha sorpreso anche la comunità ecclesiale

4)     Gli auspici del pastore

5)     Gli auspici per lo Stato e la società civile

6)     Progetti realistici complessivi

7)     Criteri attuativi

8)     La salvaguardia dell'identità nazionale

9)     Il caso dei musulmani

10) Cattolicesimo “religione nazionale storica”

11) Alle comunità ecclesiali

12) L'annuncio del Vangelo e l'osservanza della carità

13) Non surrogabilità dell'evangelizzazione

14) Approccio realisticamente differenziato

15) Conclusione


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Premessa

Dovrebbe essere evidente a tutti quanto sia rilevante il tema dell'immigrazione nell'Italia di oggi; ma credo sia altrettanto innegabile l'inadeguata attenzione pastorale e lo scarso realismo con cui finora esso è stato valutato e affrontato. Il fenomeno appare imponente e grave; e i problemi che ne derivano ‑ tanto per la società civile quanto per la comunità cristiana ‑ sono per molti aspetti nuovi, contrassegnati da inedite complicazioni, provvisti di una forte incidenza sulla vita delle nostre popolazioni.

I generici allarmismi senza dubbio non servono, ma nemmeno le banalizazioni ansiolitiche e le speranzose minimizzazioni. Né si può sensatamente confidare in un rapido esaurirsi dell'emergenza: è improbabile che tutto si risolva quasi autonomamente, senza positivi interventi, e la tensione stia per sciogliersi presto quasi come un temporale estivo, che di solito è di breve durata e non suscita prolungate preoccupazioni.

A una interpellanza della storia come questa si deve dunque rispondere ‑ come, del resto, davanti a tutti gli eventi imprevisti e non eludibili della vicenda umana - senza panico e senza superficialità. Vanno studiate le cause e va accuratamente indagata l'indole multiforme dell'accadimento; ma non si può neanche attardarsi troppo nelle ricerche e nelle analisi, senza mai arrivare a qualche provvedimento mirato e, per quel che è possibile, efficace, perché i turbamenti e le sofferenze derivanti dall'immigrazione sono già in atto.

Un fenomeno che ha sorpreso lo Stato

Dobbiamo riconoscere ‑ e può essere un'attenuante che siamo stati tutti colti di sorpresa.

È stato colto di sorpresa lo Stato, che dà tuttora l'impressione di smarrimento; e pare non abbia ancora recuperata la capacità di gestire razionalmente la situazione, riconducendola entro le regole irrinunciabili e gli ambiti propri dell'ordinata convivenza civile. I provvedimenti, che via via vengono predisposti, sono eterogenei e spesso appaiono contraddittori: denunciano la mancanza di una qualche progettualità e, più profondamente, denotano l'assenza di una corretta e disincantata interpretazione di ciò che sta avvenendo. Non vediamo che ci sia una “lettura” abbastanza penetrante dei fatti, tale che sia poi in grado di suggerire, sviluppare e sorreggere un indirizzo coerente e saggio di comportamento.

Ha sorpreso anche la comunità ecclesiale

Sono state colte di sorpresa anche le comunità cristiane, ammirevoli in molti casi nel prodigarsi prontamente ad alleviare disagi e pene, ma sprovviste finora di una visione non astratta, non settoriale e abbastanza concorde, in grado di ispirare valutazioni e intenti operativi che tengano conto di tutte le implicazioni degli avvenimenti e di tutti gli aspetti della questione. Le generiche esaltazioni della solidarietà e del primato della carità evangelica ‑ che in sé e in linea di principio sono legittime e anzi doverose ‑ si dimostrano più generose e ben intenzionate che utili, se rifuggono dal commisurarsi con la complessità del problema e la ruvidezza della realtà effettuale.

Anche nella nostra esplicita consapevolezza di pastori, non si ha l'impressione che il fenomeno dell'immigrazione negli ultimi quindici anni ‑ nel corso dei quali esso si è amplificato e acutizzato ‑ sia stato vivo e pungente a misura della sua oggettiva gravità.

Abbiamo avuto in merito due estesi documenti: nel 1990 la Nota pastorale della Commissione ecclesiale “Giustizia e pace” dal titolo: Uomini di culture diverse: dal conflitto alla solidarietà; e nel 1993 gli Orientamenti pastorali della Commissione ecclesiale per le migrazioni dal titolo: Ero forestiero e mi avete ospitato. Ambedue i testi, molto estesi e analitici, sono più che altro (e doverosamente) tesi a costruire e a diffondere nella cristianità una “cultura dell'accoglienza”. Manca invece un po' di realismo nel vaglio delle difficoltà e dei problemi; e soprattutto appare insufficiente il risalto dato alla missione evangelizzatrice della Chiesa nei confronti di tutti gli uomini, e quindi anche di coloro che vengono a dimorare da noi.

Gli auspici del pastore

Vorrei adesso dare consistenza al mio cordiale saluto ai partecipanti di questo seminario, esprimendo semplicemente alcuni auspici: nascono dalla riflessione e dal cuore di un vescovo, rivelano più che altro le sue sollecitudini apostoliche e sono formulati nel rispetto di quanti ‑ studiosi, operatori sociali, pubbliche autorità - sono chiamati in causa dalla necessità di dare rapida e sufficiente risposta all'emergenza che qui prende il nostro interesse.

Non dovrebbe essere inutile che agli esami e alle considerazioni di natura politica, economica, antropologica, culturale dei competenti (e prestando ad essi la dovuta attenzione) si aggiunga anche la prospettiva di chi ‑ essendo a tutti gli effetti cittadino italiano e avendo l'originale presunzione di poter esporre anche in quanto tale il proprio parere ‑ si sente soprattutto responsabile del presente e dell'avvenire del gregge di Cristo che gli è stato affidato; e, tra l'altro, non può mai dimenticare l'inquietante domanda che il Signore Gesù ha lasciato senza risposta: “Il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8).

Gli auspici per lo Stato e la società civile

L'auspicio sostanziale che crediamo di dover formulare per lo Stato e la società civile, è che si chiariscano e siano comunemente accolte alcune persuasioni previe, sicché ci si accosti al fenomeno dell'immigrazione provvisti di una “cultura” plausibile largamente condivisa.

È incontestabile, per esempio, il principio che a ogni popolo debbano essere riconosciuti gli spazi, i mezzi, le condizioni che gli consentano non solo di sopravvivere ma anche di esistere e svilupparsi secondo quanto è richiesto dalla dignità umana. Gli organismi internazionali sono sollecitati a farsi carico delle iniziative atte a conseguire questa meta e non possono perdere di vista questo necessario ideale di giustizia distributiva generale; e tutto ciò vale ‑ in modo proporzionato e secondo le reali possibilità ‑ anche per i singoli stati.

Ma non se ne può dedurre ‑ se si vuol essere davvero “laici” oltre tutti gli imperativi ideologici ‑ che una nazione non abbia il diritto di gestire e regolare l'afflusso di gente che vuol entrare a ogni costo. Tanto meno se ne può dedurre che abbia il dovere di aprire indiscriminatamente le proprie frontiere.

Bisogna piuttosto dire che ogni auspicabile progetto di pacifico inserimento suppone ed esige che gli accessi siano vigilati e regolamentati. È tra l'altro davanti agli occhi di tutti che gli ingressi arbitrari ‑ quando hanno fama di essere abbastanza agevolmente effettuabili ‑ determinano fatalmente da un lato il dilatarsi incontrollato della miseria e della disperazione (e spesso pericolose insorgenze di intolleranza e di rifiuto assoluto), dall'altro il prosperare di un'industria criminale di sfruttamento di chi aspira a varcare clandestinamente i confini.

Progetti realistici complessivi

Ciò che dobbiamo augurare al nostro Stato e alla società italiana è che si arrivi presto a un serio dominio della situazione, in modo che il massiccio arrivo di stranieri nel nostro paese sia disciplinato e guidato secondo progetti concreti e realistici di inserimento che mirino al vero bene di tutti, sia dei nuovi arrivati sia delle nostre popolazioni.

Tali progetti dovrebbero contemplare tanto la possibilità di un lavoro regolarmente remunerato quanto la disponibilità di alloggi dignitosi non gratuiti: per questa strada si potrà arrivare a un sicuro innesto entro il nostro organismo sociale, senza discriminazioni e senza privilegi.

Chi viene da noi deve sapere subito che gli sarà richiesto, come necessaria contropartita dell'ospitalità, il rispetto di tutte le norme di convivenza che sono in vigore da noi, comprese quelle fiscali. Diversamente non si farebbe che suscitare e favorire perniciose crisi di rigetto, ciechi atteggiamenti di xenofobia e l'insorgere di deplorevoli intolleranze razziali.

Criteri attuativi

La pratica attuazione di questi progetti obbedirà necessariamente a criteri che saranno anche economici: l'Italia ha bisogno di forze lavorative che non riesce più a trovare nell'ambito della sua popolazione.

A questo proposito, dovrebbero essere tutti ormai persuasi di quanto sia stata insipiente la linea perseguita negli ultimi quarant'anni, con l'ossessivo terrorismo culturale antidemografico e con l'assenza di ogni correttivo legislativo e politico che ponesse qualche rimedio all'egoistica e stolta denatalità, da molto tempo ai vertici delle statistiche mondiali. Tutto questo nonostante l'esempio contrario delle nazioni d'Europa più accorte, più lungimiranti, più civili, che non hanno esitato a prendere in questo campo intelligenti e realistici provvedimenti.

La salvaguardia dell'identità nazionale

Ma i criteri di cui si parla non potranno essere soltanto economici e previdenziali.

Una consistente immissione di stranieri nella nostra penisola è accettabile e può riuscire anche benefica, purché ci si preoccupi seriamente di salvaguardare la fisionomia propria della nazione. L'Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza una inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto.

Sotto questo profilo, uno Stato davvero “laico” - che cioè abbia di mira non il trionfo di qualche ideologia, ma il vero bene degli uomini e delle donne sui quali esercita la sua attività di amministrazione e di governo, e voglia loro preparare con accortezza un desiderabile futuro ‑ dovrebbe avere tra le sue preoccupazioni primarie quella di favorire la pacifica integrazione delle genti (come si è già storicamente verificato nell'incontro tra le popolazioni latine e quelle germaniche sopravvenute) o quanto meno una coesistenza non conflittuale; una compresenza e una coesistenza che comunque non conducano a disperdere la nostra ricchezza ideale o a snaturare la nostra specifica identità.

Bisogna perciò concretamente operare perché coloro che intendono stabilirsi da noi in modo definitivo “si inculturino” nella realtà spirituale, morale, giuridica del nostro paese, e vengano posti in condizione di conoscere al meglio le tradizioni letterarie, estetiche, religiose della peculiare umanità della quale sono venuti a far parte.

A questo fine, le concrete condizioni di partenza degli immigrati non sono ugualmente propizie; e le autorità non dovrebbero trascurare questo dato della questione.

In una prospettiva realistica, andrebbero preferite (a parità di condizioni, soprattutto per quel che si riferisce all'onestà delle intenzioni e al corretto comportamento) le popolazioni cattoliche o almeno cristiane, alle quali l'inserimento risulta enormemente agevolato (per esempio i latino‑americani, i filippini, gli eritrei, i provenienti da molti paesi dell'Est Europa, eccetera); poi gli asiatici (come i cinesi e i coreani), che hanno dimostrato di sapersi integrare con buona facilità, pur conservando i tratti distintivi della loro cultura. Questa linea di condotta ‑ essendo “laicamente” motivata - non dovrebbe lasciarsi condizionare o disanimare nemmeno dalle possibili critiche sollevate dall'ambiente ecclesiastico o dalle organizzazioni cattoliche.

Come si vede, si propone qui semplicemente il “criterio dell'inserimento più agevole e meno costoso”: un criterio totalmente ed esplicitamente “laico”, a proposito del quale evocare gli spettri del razzismo, della xenofobia, della discriminazione religiosa, dell'ingerenza clericale e perfino della violazione della Costituzione, sarebbe un malinteso davvero mirabile e singolare; il quale, se effettivamente si verificasse, ci insinuerebbe qualche dubbio sulla perspicacia degli opinionisti e dei politici italiani.

Il caso dei musulmani

Se non si vuol eludere o censurare tale realistica attenzione, è evidente che il caso dei musulmani vada trattato a parte. Ed è sperabile che i responsabili della cosa pubblica non temano di affrontarlo a occhi aperti e senza illusioni.

Gli islamici ‑ nella stragrande maggioranza e con qualche eccezione ‑ vengono da noi risoluti a restare estranei alla nostra “umanità”, individuale e associata, in ciò che ha di più essenziale, di più prezioso, di più “laicamente” irrinunciabile: più o meno dichiaratamente, essi vengono a noi ben decisi a rimanere sostanzialmente “diversi”, in attesa di farci diventare tutti sostanzialmente come loro.

Hanno una forma di alimentazione diversa (e fin qui poco male), un diverso giorno festivo, un diritto di famiglia incompatibile col nostro, una concezione della donna lontanissima dalla nostra (fino a praticare la poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente integralista della vita pubblica, sicché la perfetta immedesimazione tra religione e politica fa parte della loro fede indubitabile e irrinunciabile, anche se aspettano prudentemente a farla valere di diventare preponderanti. Non sono dunque gli uomini di Chiesa, ma gli stati occidentali moderni a dover far bene i loro conti a questo riguardo.

Va anzi detto qualcosa di più: se il nostro Stato crede sul serio nell'importanza delle libertà civili (tra cui quella religiosa) e nei princìpi democratici, dovrebbe adoperarsi perché essi siano sempre più diffusi, accolti e praticati a tutte le latitudini. Un piccolo strumento per raggiungere questo scopo è quello della richiesta che venga data una “reciprocità” non puramente verbale da parte degli stati di origine degli immigrati.

Scrive a questo proposito la Nota CEI del 1993: “In diversi paesi islamici è quasi impossibile aderire e praticare liberamente il cristianesimo. Non esistono luoghi di culto, non sono consentite manifestazioni religiose fuori dell'islam, né organizzazioni ecclesiali per quanto minime. Si pone così il difficile problema della reciprocità. È questo un problema che non interessa solo la Chiesa, ma anche la società civile e politica, il mondo della cultura e delle stesse relazioni internazionali. Da parte sua il papa è instancabile nel chiedere a tutti il rispetto del diritto fondamentale della libertà religiosa” (n. 34). Ma ‑ diciamo noi ‑ chiedere serve a poco, anche se il papa non può fare di più.

Per quanto possa apparire estraneo alla nostra mentalità e persino paradossale, il solo modo efficace e non velleitario di promuovere il “principio di reciprocità” da parte di uno Stato davvero “laico” e davvero interessato alla diffusione delle libertà umane, sarebbe quello di consentire in Italia per i musulmani, sul piano delle istituzioni da autorizzare, solo ciò che nei paesi musulmani è effettivamente consentito per gli altri.

Cattolicesimo “religione nazionale storica”

Quanto ai rapporti da intrattenere con le diverse religioni, che sono presenti tra noi in conseguenza dell’ immigrazione, sarà bene che nessuno ignori o dimentichi che il cattolicesimo ‑ che indiscutibilmente non è più la “religione ufficiale dello Stato” ‑ rimane nondimeno la “religione storica” della nazione italiana, la fonte precipua della sua identità, l'ispirazione determinante delle nostre più vere grandezze.

Sicché è del tutto incongruo assimilarlo socialmente alle altre forme religiose o culturali, alle quali dovrà essere assicurata piena e autentica libertà di esistere e di operare, senza però che questo comporti un livellamento innaturale o addirittura un annichilimento dei più alti valori della nostra civiltà.

Va anche detto che è una singolare visione della democrazia il far coincidere il rispetto degli individui e delle minoranze con il non rispetto della maggioranza e l'eliminazione di ciò che è acquisito e tradizionale in una comunità umana. Dobbiamo qui segnalare purtroppo casi sempre più numerosi di questa, che è una “intolleranza sostanziale”, per esempio quando nelle scuole si aboliscono i segni e gli usi cattolici per la presenza di alcuni di altre fedi.

Alle comunità ecclesiali

Che cosa diremo di illuminante e di pratico alle comunità cristiane, che di questi tempi sono per la verità afflitte da poca chiarezza di idee e da molte incertezze comportamentali?

In primo luogo, deve essere manifesto a tutti che non è per sé compito della Chiesa come tale risolvere ogni problema sociale che la storia di volta in volta ci presenta. Le nostre comunità e i nostri fedeli non devono perciò nutrire complessi di colpa a causa delle emergenze anche imperiose che essi con le loro forze non riescono ad appianare. Sarebbe un implicito, ma comunque intollerabile e grave “integralismo” il credere che le aggregazioni ecclesiali e i cattolici possano essere responsabilizzati di tutto.

Qualche volta i malintesi sono involontariamente propiziati dalle pubbliche autorità che, quando non sanno che pesci pigliare, fanno appello alle nostre supplenze e fatalmente ci coinvolgono (dando in tal modo implicito riconoscimento che le organizzazioni ecclesiali sono tra quelle che in Italia riescono ancora a funzionare).

L'annuncio del Vangelo e l'osservanza della carità

Compito primario e indiscutibile delle comunità ecclesiali è l'annuncio del Vangelo e l'osservanza del comando dell'amore. Di fronte a un uomo in difficoltà ‑ quale che sia la sua razza, la sua cultura, la sua religione, la legalità della sua presenza ‑ i discepoli di Gesù hanno il dovere di amarlo operosamente e di aiutarlo a misura delle loro concrete possibilità.

Il Signore ci chiederà conto della genuinità e dell'ampiezza della nostra carità e ci domanderà se abbiamo fatto tutto il possibile. Su questo però ‑ sarà bene che nessuno se lo dimentichi ‑ noi siamo tenuti a rispondere non ad altri, ma solo al Signore.

Non surrogabilità dell'evangelizzazione

Dovere statutario della Chiesa Cattolica e compito di ogni battezzato è di far conoscere esplicitamente Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio morto per noi e risorto, oggi vivo e Signore dell'universo, unico Salvatore di tutti.

Tale missione può essere coadiuvata ma non surrogata dall'attività assistenziale che riusciremo a offrire ai nostri fratelli. Suppone la nostra attitudine al dialogo sincero, aperto, rispettoso con tutti, ma non può risolversi nel solo dialogo. È favorita dalla conoscenza oggettiva delle posizioni altrui, ma si avvera soltanto nella conoscenza di Cristo cui noi riusciamo a portare i nostri fratelli, che sventuratamente ancora non ne sono gratificati.

Inoltre l'azione evangelizzatrice è di sua natura universale e non tollera deliberate esclusioni di destinatari. Il Signore non ci ha detto: “Predicate il Vangelo ad ogni creatura, tranne i musulmani, gli ebrei e il Dalai Lama” (cf Mc 16,15). Chi ci contestasse la legittimità o anche solo l'opportunità di questo annuncio illimitato e inderogabile, peccherebbe di intolleranza nei nostri confronti: ci proibirebbe infatti di essere quello che siamo, vale a dire “cristiani”; cioè obbedienti alla chiara ed esplicita volontà di Cristo.

È molto importante che tutti i cattolici si rendano conto di questa loro indeclinabile responsabilità. E per essere buoni evangelizzatori, persuasi dentro di sì e persuasivi nei confronti degli altri, essi devono crescere sempre più nella intelligenza e nella gioiosa ammirazione degli immensi tesori di verità, di sapienza, di consolante speranza che hanno la fortuna di possedere: è una effusione sovrumana, anzi divinizzante di luce, assolutamente inconfrontabile con i pur preziosi barlumi offerti dalle varie religioni e dall'Islam; e noi siamo chiamati a proporla appassionatamente e instancabilmente a tutti i figli di Adamo.

Approccio realisticamente differenziato

Le comunità cristiane ‑ in funzione di un approccio sapiente e realistico al fenomeno dell'immigrazione - non possono non valutare attentamente i singoli e i gruppi, in modo da assumere poi gli atteggiamenti più pertinenti e più opportuni.

Agli immigrati cattolici ‑ quale che sia la loro lingua e il colore della loro pelle ‑ bisogna far sentire nella maniera più efficace che all'interno della Chiesa non ci sono “stranieri”: essi a pieno titolo entrano a far parte della nostra famiglia di credenti, e vanno accolti con schietto spirito di fraternità.

Quando sono presenti in numero rilevante e in aggregazioni omogenee consistenti, andranno sinceramente incoraggiati a conservare la loro tipica tradizione cattolica, che sarà oggetto di affettuosa attenzione da parte di tutti. La compresenza di queste diverse “forme” di vita ecclesiale e di culto autentico costituirà senza dubbio un arricchimento spirituale per l'intera cristianità.

Ai cristiani delle antiche Chiese orientali, che non sono ancora nella piena comunione con la Sede di Pietro, esprimeremo simpatia e rispetto. E, in conformità agli eventuali accordi generali e secondo l'opportunità, potremo favorirli anche dell'uso di qualche nostra chiesa per le loro celebrazioni.

Gli appartenenti alle religioni non cristiane vanno amati e, quanto è possibile, aiutati nelle loro necessità. Da alcuni di loro ‑ segnatamente dai musulmani ‑ possiamo tutti imparare la fedeltà ai loro esercizi rituali e ai loro momenti di preghiera, ma non tocca a noi prestare positive collaborazioni alla loro pratica religiosa.

A questo proposito, è utile richiamare quanto è disposto dalla Nota CEI del 1993, già citata: “Le comunità cristiane, per evitare inutili fraintendimenti e confusioni pericolose, non devono mettere a disposizione, per incontri religiosi di fedi non cristiane, chiese, cappelle e locali riservati al culto cattolico, come pure ambienti destinati alle attività parrocchiali” (n. 34).

Come si può capire dalla complessità di questa problematica, non è ammissibile che essa sia affrontata “in toto” dalla “Caritas italiana”, che ha un ben delimitato campo di valutazione e di interesse. Sui temi della evangelizzazione, della identità cristiana del nostro popolo, delle concrete

 

 


difficoltà pastorali ‑ e dunque sulla questione della immigrazione globalmente intesa ‑ non dovrebbero esserci deleghe a nessun particolare organismo ecclesiale.

Conclusione

In un'intervista di una decina d'anni fa, mi è stato chiesto con molto candore e con invidiabile ottimismo: “Ritiene anche Lei che l'Europa o sarà cristiana o non sarà?”. Mi pare che la mia risposta di allora possa ben servire alla conclusione del mio intervento di oggi.

Io penso - dicevo - che l'Europa o ridiventerà cristiana o diventerà musulmana. Ciò che mi pare senza avvenire è la “cultura del niente”, della libertà senza limiti e senza contenuti, dello scetticismo vantato come conquista intellettuale, che sembra essere l'atteggiamento largamente dominante nei popoli europei, più o meno tutti ricchi di mezzi e poveri di verità.

Questa “cultura del niente” (sorretta dall'edonismo e dalla insaziabilità libertaria) non sarà in grado di reggere all'assalto ideologico dell'Islam, che non mancherà: solo la riscoperta dell'“avvenimento cristiano” come unica salvezza per l'uomo ‑ e quindi solo una decisa risurrezione dell'antica anima dell'Europa - potrà offrire un esito diverso a questo inevitabile confronto.

Purtroppo né i “laici” né i “cattolici” pare si siano finora resi conto del dramma che si sta profilando. I “laici”, osteggiando in tutti i modi la Chiesa, non si accorgono di combattere l'ispiratrice più forte e la difesa più valida della civiltà occidentale e dei suoi valori di razionalità e di libertà: potrebbero accorgersene troppo tardi. I “cattolici”, lasciando sbiadire in se stessi la consapevolezza della verità posseduta e sostituendo all'ansia apostolica il puro e semplice dialogo a ogni costo, inconsciamente preparano (umanamente parlando) la propria estinzione.

La speranza è che la gravità della situazione possa a un certo momento portare a un efficace risveglio sia della ragione sia dell'antica fede.

È il nostro augurio, il nostro impegno, la nostra preghiera.

Bologna, 30 settembre 2000

GIACOMO CARD. BIFFI

arcivescovo di Bologna


 

 


NOI E L'ISLAM - dall’accoglienza al dialogo

Discorso di S.Em. Card. Carlo Maria Martini alla Chiesa ed alla Città di Milano, nella vigilia della festa di sant’Ambrogio, il 6 dicembre 1990.


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Dal Libro della Genesi (21, 13-20)

1. Premessa

2. Chi siamo "noi" e chi è "l'islam"

3. I valori storici dell'islam

4. L’islam in Europa

5. L’atteggiamento della Chiesa e il dialogo

6. Annunciare il Vangelo di Gesù

7. Conclusione

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 Dal Libro della Genesi (21, 13-20):    In quel tempo Dio disse ad Abramo: "Io farò diventare una grande nazione  anche il figlio della schiava, perché è tua prole". Abramo si alzò di buon  mattino, prese il pane e un otre di acqua e li diede ad Agar, caricandoli sulle  sue spalle; le consegnò il fanciullo e la mandò via. Essa se ne andò e si smarrì  per il deserto di Bersabea. Tutta l’acqua dell’otre era venuta a mancare.  Allora essa depose il fanciullo sotto un cespuglio e andò a sedersi di fronte,  alla distanza di un tiro d’arco, perché diceva: "Non voglio veder morire il  fanciullo!". Quando gli si fu seduta di fronte, egli alzò la voce e pianse. Ma  Dio udì la voce del fanciullo e un angelo di Dio chiamò Agar dal cielo e le  disse: "Che hai Agar? Non temere, perché Dio ha udito la voce del fanciullo  là dove di trova. Alzati, prendi il fanciullo e tienilo per mano, perché io ne  farò una grande nazione". Dio le aprì gli occhi ed essa vide un pozzo d’acqua.  Allora andò a riempire l’otre e fece bere il fanciullo. E Dio fu con il  fanciullo, che crebbe e abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco.

1. PREMESSA    Il racconto che abbiamo ascoltato, tratto dal più antico libro della Scrittura, il libro della Genesi, ci parla di un figlio di Abramo  che non fu capostipite del popolo ebraico, come lo sarebbe stato Isacco, ma a cui ugualmente sono state riservate alcune  benedizioni di Dio.

"Io farò diventare una grande nazione anche il figlio della schiava, perché è tua prole" promette Dio ad Abramo. E infine nel  racconto si dice: "Dio fu con il fanciullo".

Le reali vicende di questo Ismaele e dei suoi figli rimangono oscure nella storia del secondo e primo millennio avanti Cristo, ma  è chiaro che il riferimento biblico va ad alcune tribù beduine abitanti intorno alla Penisola Arabica. Da tali tribù doveva nascere  molti secoli dopo Maometto, il profeta dell’islam.

Oggi, in un momento in cui il mondo arabo ha assunto una straordinaria rilevanza sulla scena internazionale e in parte anche nel  nostro paese, non possiamo dimenticare questa antica benedizione che mostra la paterna provvidenza di Dio per tutti i suoi figli.  Ed è di questo che vorrei parlarvi oggi, festa di sant’Ambrogio, in quello spirito di attenzione agli eventi della città che hanno  caratterizzato la vita del nostro patrono.

Esprimerò qualche riflessione non sul fenomeno dell’islam in generale, ma su quanto ci tocca oggi a Milano e nel contesto  europeo, a seguito delle nuove forme di presenza dell’islam tra noi.  Ho scelto come titolo preciso di questa conversazione Noi e l’islam.

2. CHI SIAMO "NOI" E CHI E’ "L’ISALM".    Per noi intendo anzitutto il noi della comunità ecclesiale, della diocesi di Milano e, in seconda istanza, anche il noi della  comunità civile cittadina, provinciale e regionale.  Certamente il problema posto dall’islam in Europa è molto più vasto. Abbiamo avuto occasione di dirlo l’anno scorso, in  questa stessa sede, parlando dell’accoglienza ai terzomondiali.

La presenza di numerosi gruppi etnici di fede musulmana nei nostri paesi europei comporta anzitutto una serie di problemi  riguardanti la prima accoglienza e assistenza, la casa, il lavoro. Uno sforzo che impegna tutti; e le comunità cristiane della nostra  diocesi hanno dato prova questo anno di grande spirito di solidarietà.  Tale compito di prima sistemazione in accordo con le leggi vigenti riguarda in primo luogo la comunità civile, sia pure in  collaborazione con le forze di volontariato. Ma è evidente che tutti noi, comunità civile ed ecclesiale, non potremo limitarci in  avvenire ai provvedimenti sopraindicati. Nasceranno via via nuovi problemi riguardanti la riunione delle famiglie, la situazione  sociale e giuridica dei nuovi immigrati, la loro integrazione sociale mediante una conoscenza più approfondita della lingua, il  problema scolastico dei figli, i problemi dei diritti civili, etc.  Non entro direttamente in tali temi perché ho avuto modo di parlarne in diverse occasioni. Vorrei solo richiamare qui, prima di  abbordare il tema più specifico, un punto che mi è sembrato finora poco atteso e cioè la necessità di insistere su un processo di  "integrazione", che è ben diverso da una semplice accoglienza e da una qualunque sistemazione.   Integrazione comporta l’educazione dei nuovi venuti a inserirsi armonicamente nel tessuto della nazione ospitante, ad accettare  le leggi e gli usi fondamentali, a non esigere dal punto di vista legislativo trattamenti privilegiati che tenderebbero di fatto a  ghettizzarli e a farne potenziali focolai di tensioni e violenze.

Finora l’emergenza ha un po’ chiuso gli occhi su questo grave problema. In proposito, il recente documento della Commissione  Giustizia e Pace della CEI dice: "Non va dimenticata la necessità di regole e tempi adeguati per l’assimilazione di questa nuova  forma di convivenza, perché l’accoglienza senza regole non si trasformi in dolorosi conflitti" (Uomini di culture diverse, dal conflitto alla solidarietà, 25 marzo 1990, n. 33).  E’ necessario in particolare far comprendere a quei nuovi immigrati che provenissero da paesi dove le norme civili sono  regolate dalla sola religione e dove religione e stato formano un’unità indissolubile, che nei nostri paesi i rapporti tra lo stato e le  organizzazioni religiose sono profondamente diversi. Se le minoranze religiose hanno tra noi quelle libertà e diritti che spettano a  tutti i cittadini, senza eccezione, non ci si può invece appellare, ad esempio, ai principi della legge islamica (sciariaa) per esigere spazi e prerogative giuridiche specifiche.

Occorre perciò elaborare un cammino verso l’integrazione multirazziale che tenga conto di una reale integrabilità di diversi  gruppi etnici.   Perché si abbia una società integrata è necessario assicurare l’accettazione e la possibilità di assimilazione di almeno un nucleo  minimo di valori che costituiscono la base di una cultura, come ad esempio i principi della Dichiarazione universale dei diritti  dell’uomo e il principio giuridico dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge.  Ci sono infatti popoli ed etnie che hanno una storia e una cultura molto diverse dalle nostre e di cui ci si può domandare se  intendano nello stesso senso i diritti umani e anche la nozione di legge.  Ciò vale a fortiori dove si verificano fenomeni che  genericamente chiamiamo col nome di integralismi o fondamentalismi, che tendono a creare comunità separate e che si  ritengono superiori alle altre. Ma questo è un problema che nel suo insieme riguarda la comunità civile e la causa della pacifica  convivenza tra le etnie ed io mi limito a richiamarlo.   Connesso a questo è però il problema della possibilità anche di un dialogo interreligioso senza il quale sembra difficile  assicurare una tranquillità sociale. Ora questo dialogo è possibile? Vi sono pronti i musulmani? Vi siamo pronti noi cristiani?

Come vedete, si passa a poco a poco dai problemi che toccano la comunità civile nel suo insieme a quelli più propriamente  religiosi, che consistono sostanzialmente, per noi cristiani, nella necessità di valutare e capire a fondo l’islam oggi e nel disporci  al massimo di accoglienza e di dialogo possibile, senza per questo rinunciare ad alcun valore autentico, anzi approfondendo il  senso del Vangelo.  Si tratta in sostanza di rispondere a domande come queste:  

   a. Che cosa dobbiamo pensare oggi noi cristiani dell’islam come religione?

   b. L’islam in Europa sarà anch’esso secolarizzato, entrando quindi in una nuova fase della sua acculturazione europea?

   c. Quale dialogo e in genere quale rapporto sul piano religioso è possibile oggi in Europa tra cristianesimo e islam?

   d. La Chiesa dovrà rinunciare a offrire il Vangelo ai seguaci dell’islam?

  Islam significa etimologicamente "sottomissione" e in special modo sottomissione a Dio e a quella rivelazione che egli ha fatto di  sé. Noi intendiamo qui per islam l’insieme di tutte le credenze e pratiche che si richiamano a Maometto e al Corano, ben consci  della complessità di un simile macrocosmo e delle sue molteplici ramificazioni nei secoli.   In generale possiamo dire che i "pilastri" dell’islam, accettati da tutti i musulmani, sono: il riconoscere un Dio solo, creatore,  misericordioso e giudice universale, e Maometto come suo profeta definitivo; la preghiera cinque volte al giorno; il digiuno di  ramadàn; l’imposta per i poveri; il pellegrinaggio alla Mecca una volta in vita; il gihàd interiore, cioè lo sforzo e il  combattimento per Dio, da intendersi anzitutto come mobilitazione contro le proprie passioni per una vita giusta e la lotta contro  l’oppressione e l’ingiustizia; l’impegno a conformarsi nel privato e nel pubblico a quel modo di vivere chiamato sciariaa, basato  sul Corano, seguendo il quale è possibile fare la volontà di Dio in ogni aspetto della vita: religioso, personale, familiare,  economico, politico.

Di qui si vede come l’islam è una religione in cui l’aspetto sociale e civile ha una fondamentale importanza.  Anche se i musulmani nel mondo sono oggi diversi per origine etnica e correnti religiose interne e sono cittadini di diversi stati  indipendenti, rimane però vero che la fede musulmana è di per se stessa un universalismo che oltrepassa le frontiere e rimane  sensibile a grandi appelli al ritorno alle origini, così come avviene oggi nei movimenti fondamentalisti.  Se non è facile parlare di islam in generale, in conseguenza della storia molto complessa e ricca di questa religione; più difficile  ancora è definire il fenomeno dell’islam tra noi, dell’islam in Europa. Troppo recente infatti è il suo nuovo tipo di presenza  nell’Europa occidentale ed è difficile persino stabilirne le misure quantitative.

I musulmani nella grande Europa sono circa 23 milioni. Il paese che ne ha la più alta percentuale è senza dubbio l’Unione delle  Repubbliche Sovietiche. Seguono la Francia con 2 milioni e mezzo, la Germania ex Federale con 1.700.000, l’Inghilterra con 1  milione. Per l’Italia si parla di cifre, tra regolari e clandestini, che vanno da 180.000 a 300.000 unità, ma probabilmente il  numero è oggi più alto. Paesi molto più piccoli di noi rilevano una presenza proporzionalmente assai più elevata, come l’Olanda  che ne ha 300.000 o il Belgio che ne ha 250.000.  La presenza tra noi non è quindi numericamente molto rilevante, ma si è fatta vistosa negli ultimi anni, anche perché il loro arrivo  in Italia ha coinciso con una ripresa delle correnti più integraliste.  E’ forse la percezione di questo aspetto che sta creando tra noi un certo disagio e malessere, suscitando alcune delle domande  alle quali tenterò di rispondere.

In quanto comunità cristiana, quali sono i principi a cui ci richiamiamo in questa materia?   Possiamo rifarci per brevità a due tipi di testi. Anzitutto a quelli del Concilio Vaticano II, che ha parlato dei musulmani  soprattutto in due luoghi. Al n. 16 della Lumen Gentium si dice che "il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che  riconoscono il Creatore e, tra questi, in particolare i musulmani, i quali professano di tenere la fede di Abramo, adorano con noi  un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giudizio finale".  Nel decreto Nostra Ætate sulle relazioni della Chiesa cattolica con le religioni non cristiane si dice in generale che "la Chiesa  cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni" e "considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere  quei precetti e quelle dottrine che non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini". In particolare  afferma di guardare con stima ai musulmani che "cercano di sottomettersi con tutto il core ai decreti di Dio anche nascosti,  come si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce" (n. 2). E a proposito dei "dissensi e inimicizie  che sono sorti nel corso dei secoli tra cristiani e musulmani", il Concilio "esorta tutti a dimenticare il passato e ad esercitare  sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori  morali, la pace e la libertà" (n. 3).

Il Concilio ha avuto dunque cura di richiamare elementi comuni a cristiani e musulmani. Per questo è anche significativo che  esso abbia omesso altri temi importanti per l’islam. Non vengono menzionati dai testi conciliari né Maometto, né il Corano, né  l’islam inteso come essenziale nesso comunitario tra i credenti, né il pellegrinaggio alla Mecca, né la sciariaa. Viene menzionata  la comune ascendenza abramitica, ma non Gesù, che nell’islam è presente e però è assai lontano da come lo vede il  cristianesimo.   Per i musulmani Gesù, il figlio di Maria Vergine - e la figura di Maria è venerata presso i musulmani -, non è né profeta  definitivo, né il Figlio di Dio e neppure è morto realmente sulla croce. Manca così la dimensione vera e propria della  redenzione.  Ai testi conciliari che già indicano, malgrado le omissioni sopra notate, con quale rispetto, con quale apertura di spirito e  prontezza di dialogo deve procedere un cristiano nel riflettere sull’islam, possiamo ancora aggiungere un testo di Giovanni Paolo  II che potrà fugare anche i dubbi di quanti temono che mediante la frequentazione e il dialogo con l’islam venga meno la  chiarezza della fede cattolica. Dice Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor Hominis al n. 11: "Il Concilio  ecumenico [Vaticano II] ha dato un impulso fondamentale per formare l’autocoscienza della Chiesa, offrendoci in modo tanto  adeguato e competente la visione dell’orbe terrestre come di una "mappa" di varie religioni". Il Concilio "è pieno di profonda  stima per i grandi valori spirituali, anzi, per il primato di ciò che è spirituale e trova nella vita dell’umanità la sua espressione nella  religione e, inoltre, nella moralità, con diretti riflessi su tutta la cultura .  Per l’apertura data dal Concilio Vaticano II, la Chiesa e  tutti i cristiani hanno potuto raggiungere una coscienza più completa del mistero di Cristo, "mistero nascosto da secoli" in Dio,  per essere rivelato nel tempo, nell’uomo Gesù Cristo e per rivelarsi continuamente in ogni tempo".  Giovanni Paolo II non vede dunque opposizione, anzi convergenza, tra l’attenzione al dialogo interreligioso e l’accresciuta  coscienza della propria fede.

E’ con questo spirito e con questa fiducia che cerchiamo di rispondere alle domande che ci siamo posti all’inizio.

 3. I VALORI STORICI DELL’ISLAM    Che cosa pensare dell’islam in quanto cristiani? Che cosa significa esso per un cristiano dal punto di vista della storia della  salvezza e dell’adempimento del disegno divino nel mondo? Perché Dio ha permesso che l’islam, unica tra le grandi religioni  storiche, sorgesse sei secoli dopo l’evento cristiano, tanto che alcuni tra i primi testimoni lo ritennero un’eresia cristiana, un  ramo staccato dall’unico e identico albero? Che senso può avere nel piano divino il sorgere di una religione in certo modo così  vicina al cristianesimo come mai nessun’altra religione storica e insieme così combattiva, così capace di conquista, tanto che  alcuni temono che essa possa, con la forza della sua testimonianza, fare molti proseliti in un’Europa infiacchita e senza valori?

A questa domanda così complessa non è facile dare una risposta semplice che, tuttavia, è in parte anticipata da quanto  abbiamo riferito del Vaticano II. Si tratta di una fede che, avendo grandi valori religiosi e morali, ha certamente aiutato centinaia  di milioni di uomini a rendere a Dio un culto onesto e sincero e, insieme, a praticare la giustizia. Quello della giustizia è infatti uno  dei valori più fortemente affermati dall’islam: "O voi che credete, praticate la giustizia – dice il Corano nella Sura IV –  praticatela con costanza, in testimonianza di fedeltà a Dio, anche a scapito vostro, o di vostro padre, o di vostra madre, o dei  vostri parenti, sia che si tratti di un ricco o di un povero perché Dio ha priorità su ambedue" (versetto 135).  In un mondo occidentale che perde il senso dei valori assoluti e non riesce più in particolare ad agganciarli a un Dio Signore di  tutto, la testimonianza del primato di Dio su ogni cosa e della sua esigenza di giustizia ci fa comprendere i valori storici che  l’islam ha portato con sé e che ancora può testimoniare nella nostra società.                                            

4. L’ISLAM IN EUROPA    Una seconda domanda: ci sarà una secolarizzazione per l’islam in Europa?  La domanda è legittima se si pensa al difficile percorso del cristianesimo nell’alveo della modernità negli ultimi tre secoli. Il  confronto tra pensiero moderno razionale, scientifico e tecnico, tendente all’analisi e alla distinzione dei ruoli e delle competenze  e la tradizione cristiana uscita dal mondo unitario medievale, ha segnato un cammino faticoso di cui solo il Concilio Vaticano II  ha potuto consacrare alcuni risultati armonicamente raggiunti, pur se non ancora del tutto recepiti. Va emergendo però sempre  più chiaramente che la fede in un Dio fatto uomo ed entrato nelle vicende umane è una forza che permette di cogliere anche nel  divenire economico, sociale e culturale, i segni della presenza di Dio e quindi il senso positivo di un cammino di fede nell’ambito  della modernità.  Non è pensabile che l’islam in Europa non si trovi prima o poi ad affrontare una simile sfida. Sappiamo anzi che, dalla fine della  prima guerra mondiale fino ad oggi, vi sono state molte proposte, tendenze, partiti, soluzioni secondo le quali il mondo  musulmano, nelle sue diverse ramificazioni, etnie e territori, ha preso coscienza dell’avvento dell’era della tecnica e delle  esigenze di razionalità che essa comporta.   Bisogna dire però che fino ad ora la fede nei grandi "pilastri" dell’islam non sembra aver avvertito in maniera preoccupante la  scossa derivante dai principi della modernità. Prevalgono in questo momento le tendenze fondamentaliste, che cercano di  appropriarsi dei risultati tecnici, ma staccandoli dalle loro premesse culturali occidentali con la volontà di risolvere, nella linea  della tradizione antica, tutti i problemi politici e sociali per mezzo della religione.

Non si ammette quindi separazione tra religione e stato, tra religione e politica, e nell’interpretazione letterale del Corano  vengono cercati tutti i principî per la risposta agli interrogativi contemporanei, anche sociali ed economici.  E’ difficile prevedere che cosa potrà avvenire in un futuro più remoto e non è il caso di indulgere a ipotesi azzardate. Sembra  corretto, nel quadro dell’atteggiamento di rispetto che prima abbiamo richiamato, auspicare e aiutare affinché il trapasso  necessario ad una assunzione non puramente materiale delle agevolazioni tecniche che vengono dall’occidente sia  accompagnato da uno sforzo serio di riflessione storico-critica sulle proprie fonti religiose e teologiche cercando "quell’armonia  tra la visione filosofica del mondo e la legge rivelata" (cf. L. Gardet, L’islam e i cristiani, Roma 1988, p. 114), che era già  presente in alcuni dei filosofi arabi conosciuti e utilizzati da san Tommaso. Dobbiamo adoperarci affinché i musulmani riescano a  chiarire e a cogliere il significato e il valore della distinzione tra religione e società, fede e civiltà, islam politico e fede  musulmana, mostrando che si possano vivere le esigenze di una religiosità personale e comunitaria in una società democratica e  laica dove il pluralismo religioso viene rispettato e dove si stabilisce un clima di mutuo rispetto, di accoglienza e di dialogo.                           

5. L’ATTEGGIAMENTO DELLA CHIESA E IL DIALOGO    Alla luce di quanto fin qui detto, quale dialogo è possibile oggi e quale deve essere l’atteggiamento della nostra Chiesa a questo  proposito?

Mi pare opportuna una distinzione tra dialogo interreligioso in generale e dialogo tra singoli credenti.  Il primo è quello che si svolge a livelli più ufficiali, tra rappresentanti religiosi di ambo le parti. Esso ha le sue regole indicate nel  Vaticano II e poi in documenti come le norme edite dal Segretariato per il Dialogo Interreligioso (in particolare  L’atteggiamento della Chiesa di fronte ai seguaci di altre religioni, 1984).   Da noi a Milano esiste la Commissione diocesana per l’Ecumenismo e il Dialogo; in questo senso lavora anche la Segreteria per  gli Esteri ed è stato creato recentemente un Centro Ambrosiano di Documentazione per le Religioni, con attenzione speciale per  il mondo musulmano. Sono pure da menzionare le presenze di istituti missionari come il PIME che hanno ormai una lunga  tradizione di conoscenza e di dialogo con queste realtà. Tale dialogo è riservato piuttosto ai competenti.   Vorrei spendere una parola per quel dialogo che si svolge a livello quotidiano a contatto con i musulmani che incontriamo oggi  sempre più frequentemente.  Va tenuto presente il fatto che non sempre la singola persona incarna e rappresenta tutte le caratteristiche che astrattamente  designano un credente di quella religione. Come avviene per i cristiani, così anche per i musulmani non tutti aderiscono in  pratica e con piena coscienza ai precetti e alle dottrine prescritte e ciò probabilmente anche a causa dello scarso retroterra  culturale di molti immigrati di recente.   Il problema non è tanto di fare grandi discussioni teologiche, ma anzitutto di cercare di capire quali sono i valori che realmente  una persona incarna nel suo vissuto per considerarli con attenzione e rispetto. Si potranno trovare, non di rado, molte più  consonanze pratiche di quanto non avvenga in una disputa teologica. Ciò vale soprattutto per i valori vissuti della giustizia e  della solidarietà. Tuttavia questa considerazione individuale deve sempre tener conto delle dinamiche di gruppo. Infatti l’islam  non è solo fede personale, bensì realtà comunitaria molto compatta e una parola d’ordine lanciata da qualche voce autorevole  al momento opportuno può ricompattare e ricondurre a unità serrata anche i soggettivismi o i sincretismi religiosi vissuti da un  singolo individuo.  Per quanto riguarda più in generale l’atteggiamento della nostra Chiesa e le attitudini che si raccomandano a tutti i nostri  cristiani, vorrei richiamare brevemente l’attenzione su alcuni punti che derivano dai principi sopra esposti:

1.Occorre accogliere motivando cristianamente il perché della nostra accoglienza, dicendolo in una lingua "comprensibile", che è più spesso quella dei fatti e della carità, dando ai musulmani il senso dello spessore religioso che pervade la nostra accoglienza.

2.Occorre ricercare insieme un obiettivo comune di tolleranza e di mutua accettazione. Non mancano per questo testi anche nel Corano. Dobbiamo sfatare a poco a poco il pregiudizio in essi radicato che i non musulmani sono di fatto  non credenti. Solo quando ci riconosceremo nel comune solco della fede di Abramo potremo parlarci con più distensione, superando i pregiudizi.

3.Dobbiamo far cogliere loro che anche noi cristiani siamo critici verso il consumismo europeo, l’indifferentismo e il degrado morale che c’è tra noi; far vedere che prendiamo le distanze da tutto ciò. Data la loro abitudine a veder legate religione e società e anche in forza delle esperienze storiche delle crociate, essi tendono a identificare l’occidente col cristianesimo e a comprendere sotto una sola condanna i vizi dell’occidente e le colpe dei cristiani. Bisogna far  comprendere che siamo solidali con loro nella proclamazione di un Dio Signore dell’universo, nella condanna del male e nella promozione della giustizia.

4.Il dialogo con i musulmani sarà in particolare per noi un’occasione per riflettere sulla loro forte esperienza religiosa che tutto finalizza alla riconsegna a Dio di un mondo a lui sottomesso. In questo, il nostro giusto senso della laicità dovrà       guardarsi dall’essere vissuto come una separazione o addirittura opposizione tra il cammino dell’uomo e quello del cristiano.

Vi sarebbe da dire una parola più specifica per le nostre comunità e in particolare per i presbiteri che le presiedono. Vi sono  due posizioni errate da evitare e una posizione corretta da promuovere.    Prima posizione errata: la noncuranza del fenomeno. Il limitarsi a pensare all’islam come a una costellazione remota che ci  sfiora soltanto di passaggio o che ci tocca per problemi di assistenza, ma che non avrà impatto culturale e religioso nelle nostre  comunità. Da tale posizione si scivola facilmente a sentimenti di disagio e quasi di rifiuto o di intolleranza.

Seconda posizione errata: lo zelo disinformato. Si fa di ogni erba un fascio, si propugna l’uguaglianza di tutte le fedi senza  rispettarle nella loro specificità, si offrono indiscriminatamente spazi di preghiera o addirittura luoghi di culto senza aver prima  ponderato che cosa significhi questo per un corretto rapporto interreligioso. Al riguardo saranno necessarie norme precise e  rigorose, anche per evitare di essere fraintesi.

La posizione corretta è lo sforzo serio di conoscenza, la ricerca di strumenti e l’interrogazione di persone competenti.  Penso, in particolare, ai casi molto difficili e spesso fallimentari dei matrimoni misti. Esistono ormai nell’ambito della diocesi  persone di riferimento, corsi e specialisti che sono a disposizione. Un supplemento di cultura e di conoscenza in questo campo  sarà necessario in avvenire, in particolare per i preti.

  Come è chiaro in quanto abbiamo detto, pensiamo fermamente che il tempo delle lotte di conquista da una parte e delle  crociate dall’altra debba considerarsi come finito.   Noi auspichiamo rapporti di uguaglianza e fraternità e insistiamo e insisteremo perché a tali rapporti si conformi anche il  costume e il diritto vigente nei paesi musulmani riguardo ai cristiani, perché si abbia una giusta reciprocità.   Conosciamo i problemi giuridici e teologici che i nostri fratelli dell’islam hanno nei loro paesi per riconoscere alle comunità  cristiane minoritarie i diritti che da noi sono riconosciuti alle minoranze, ma non possiamo pensare che tali problemi non possano  essere risolti affidandosi a quella conduzione divina della storia che è vanto dell’islam aver sempre accettato in mezzo a tante  dolorose vicissitudini.  Il nostro atteggiamento vuole in ogni caso ispirarsi a quello di san Francesco d’Assisi che scriveva nella sua Regola, al capitolo  XVI: Di coloro che vanno tra i saraceni: "I frati che vanno tra i saraceni col permesso del loro ministro e servo possono  ordinare i rapporti spirituali in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti e dispute, ma siano soggetti ad ogni  creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro è che, quando vedranno che piace al Signore,  annunzino la Parola di Dio e tutti i frati, ovunque sono, si ricordino che hanno consegnato e abbandonato il loro corpo al  Signore nostro Gesù Cristo e che per suo amore devono esporsi ai nemici sia visibili che invisibili".  Nessuna contesa dunque, nessun uso della forza; esposizione sincera e a tempo opportuno di ciò che credono; accettazione  anche di disagi e sofferenze per amore di Cristo.

6. ANNUNCIARE IL VANGELO DI GESU’    Una quarta e ultima domanda: può la Chiesa rinunciare ad annunciare il Vangelo ai musulmani?  Occorre fare anzitutto una distinzione. Altro è infatti l’annuncio, altro è il dialogo.  Il dialogo parte dai punti comuni, si sforza di allargarli cercando ulteriori consonanze, tende all’azione comune sui campi in cui è  possibile subito una collaborazione, come sui temi della pace, della solidarietà e della giustizia.  L’annuncio è la proposta semplice e disarmata di ciò che appare più caro ai propri occhi, di ciò che non si può imporre né  barattare con alcunché, di ciò che costituisce il tesoro a cui si vorrebbe che tutti attingessero per la loro gioia.  Per il cristiano il tesoro più caro è la croce, è il mistero di un Dio che si dona nel suo Figlio fino ad assumere su di sé il nostro  male e quello del mondo perché noi ne usciamo fuori.   Non sempre questo annuncio può essere fatto in modo esplicito, soprattutto nelle società chiuse e intolleranti. E’ un caso oggi  non infrequente in alcuni paesi. Ma pure nei paesi cosiddetti liberi ci si scontra talora con chiusure mentali così forti da costituire  quasi una barriera. Allora la proposta assume la forma della testimonianza quotidiana, semplice e spontanea, e quella della  carità e anche del dono della vita, fino al martirio. E’ il principio sopra ricordato di san Francesco.  Con questa distinzione riprendiamo dunque la nostra ultima domanda: può la Chiesa cattolica rinunciare a proporre il Vangelo a  chi ancora non lo possiede?

Certamente no, come ai musulmani non viene chiesto di rinunciare al loro desiderio di allargare la umma, la comunità dei  credenti.   Ciò che conterà sarà lo stile, il modo, cioè quelle caratteristiche di rispetto e di amore, quello stile di attenzione e di desiderio di  comunicare la gioia nella pace che è


proprio di chi accetta le Beatitudini. Questo stile non è senza riscontri anche nel mondo  dell'islam. Si legge infatti nel Corano: "Chiama gli uomini alla Via del Signore, con saggi ammonimenti e buoni, e discuti con loro  nel modo migliore... pazienta e sappi che il tuo pazientare è solo possibile in Dio... perciocché Dio è con coloro che lo temono,  con coloro che fanno del bene" (XVI, 125-127).

Raggiungeremo così tutti anche quell’atteggiamento missionario che ha caratterizzato il ministero di Ambrogio in mezzo ai  pagani del suo tempo.

7. CONCLUSIONE    Maometto nasce due secoli dopo il tempo di sant’Ambrogio e non vi è quindi nell’opera del santo nulla che si riferisca  direttamente al nostro tema, ma è interessante notare che la comunità di Ambrogio era una comunità religiosamente minoritaria. Due terzi della popolazione che in quel tempo abitava nella zona di Milano non era cristiana. Eppure "sembra che a Milano non  esistesse un ministero organizzato per l’evangelizzazione dei pagani. Nel De officiis ministrorum Ambrogio non dà alcuna  istruzione ai chierici per il lavoro di conversione dei pagani" (cf. V. Monachino, S. Ambrogio e la cura pastorale a Milano nel secolo IV, Milano 1973, p. 48). La via ordinaria per la quale essi venivano a conoscenza del cristianesimo era la frequenza libera alla predicazione, aperta a tutti, i colloqui con il vescovo, come nel caso di Agostino, e specialmente il contatto con i cristiani e la loro condotta esemplare.   Ambrogio poneva la sua cura nel far progredire la comunità cristiana come tale; per mezzo di essa, e non con un ministero  organizzato, avveniva l’influsso sui pagani.

Non dunque un proselitismo invadente, bensì l’immagine di una comunità plasmata dal Vangelo e dall’Eucaristia, zelante nella  carità, libera e serena nel suo impegno civile quotidiano, coraggiosa nelle prove, sempre piena di speranza.   E’ questa la nostra forza principale oggi, in un mondo secolarizzato, e questa forza è quella delle origini, quella della Chiesa di  sant’Ambrogio e della Chiesa dei giorni nostri.

Card. Carlo Maria Martini

Milano - 6 dicembre 1990

 

 

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