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Gli interventi di Biffi e Martini sull'immigrazione a cura di Domenico Manaresi
Il 12 settembre 2000, il card. Giacomo Biffi legge, durante la “Tre giorni del clero”, la “Nota pastorale” (che ha suscitato tanto scalpore) in cui esplicitamente afferma che lo Stato dovrebbe privilegiare l’immigrazione dei “cattolici”. Confesso che – unitamente a molte altre persone - fui colpito dalle parole che (almeno quelle del III capitolo) non mi apparvero essere conformi allo spirito del Vangelo: pensai che un Episcopo non avrebbe potuto esprimersi in modo più infelice. Ora invece - dopo aver
letto l’intervento che il suddetto nostro cardinale Giacomo Biffi
ha letto il 30 settembre 2000 al Seminario della Fondazione
“Migrantes” - confesso che debbo ricredermi: come recita un
antico adagio, al “peggio” davvero non c’è limite!! Le parole che Biffi ha diffuso in detto Seminario ( e che riporto qui di seguito) mi sembrano decisamente più dure di quelle espresse nella “Nota pastorale”. Sono parole che in modo molto esplicito e senza mezzi termini sembrano non lasciare via di scampo all’Islam e ai fedeli musulmani! Confesso che, nel sottoscritto, grande disagio ha provocato in particolare quel continuo “sparar giudizi” del nostro Vescovo, con una sicumera che farebbe presupporre una profonda conoscenza del Corano, dell’Islam nelle sue varie forme… può essere, ma ho qualche dubbio su questo far di ogni erba un fascio. Il confronto poi con quanto scrisse 10 anni fa, il 6 dicembre 1990, il cardinal Martini, (riporto qui di seguito anche questo scritto) beh questo ha creato in me un vero e proprio “shock”….a chi credere, a chi dar retta per quanto concerne il rapporto che il buon cristiano-cattolico dovrebbe avere col mondo islamico?? Alla pacatezza, alla ricerca di dialogo di Martini oppure all’integralismo, alla apodittica durezza di Biffi? A voi una risposta…. Shalom a tutti, ma proprio a tutti…a quei TUTTI cui credo si riferisca Paolo quando afferma (Efesini 4,6):”…un solo Dio Padre di TUTTI, che è al di sopra di TUTTI, agisce per mezzo di TUTTI ed è presente in TUTTI…”
SULLA IMMIGRAZIONECard.
Giacomo Biffi
Intervento
al Seminario della Fondazione “Migrantes”
In controcopertina “Purtroppo né i "laici"
né i ''cattolici'' pare si siano finora resi conto del dramma che
si sta profilando. I "laici", osteggiando in tutti i
modi la Chiesa, non si accorgono di combattere l'ispiratrice più
forte e la difesa più valida della civiltà occidentale e dei
suoi valori di razionalità e di libertà: potrebbero accorgersene
troppo tardi. I "cattolici", lasciando
sbiadire in se stessi la consapevolezza della verità posseduta e
sostituendo all'ansia apostolica il puro e semplice dialogo a ogni
costo, inconsciamente preparano (umanamente parlando) la propria
estinzione. La speranza è che la gravità della
situazione possa a un certo momento portare a un efficace
risveglio sia della ragione sia dell'antica fede”. INDICE
1)
Premessa 2)
Un fenomeno che ha sorpreso lo Stato 3)
Ha sorpreso anche la comunità ecclesiale 4)
Gli auspici del pastore 5)
Gli auspici per lo Stato e la società civile 6)
Progetti realistici complessivi 7)
Criteri attuativi 8)
La salvaguardia dell'identità nazionale 9)
Il caso dei musulmani 10)
Cattolicesimo “religione nazionale storica” 11)
Alle comunità ecclesiali 12)
L'annuncio del Vangelo e l'osservanza della carità 13)
Non surrogabilità dell'evangelizzazione 14)
Approccio realisticamente differenziato 15)
Conclusione . Premessa
Dovrebbe
essere evidente a tutti quanto sia rilevante il tema
dell'immigrazione nell'Italia di oggi; ma credo sia altrettanto
innegabile l'inadeguata attenzione pastorale e lo scarso realismo
con cui finora esso è stato valutato e affrontato. Il fenomeno
appare imponente e grave; e i problemi che ne derivano ‑ tanto
per la società civile quanto per la comunità cristiana ‑
sono per molti aspetti nuovi, contrassegnati da inedite
complicazioni, provvisti di una forte incidenza sulla vita delle
nostre popolazioni. I
generici allarmismi senza dubbio non servono, ma nemmeno le
banalizazioni ansiolitiche e le speranzose minimizzazioni. Né si
può sensatamente confidare in un rapido esaurirsi dell'emergenza:
è improbabile che tutto si risolva quasi autonomamente, senza
positivi interventi, e la tensione stia per sciogliersi presto quasi
come un temporale estivo, che di solito è di breve durata e non
suscita prolungate preoccupazioni. A
una interpellanza della storia come questa si deve dunque rispondere
‑ come, del resto, davanti a tutti gli eventi imprevisti e non
eludibili della vicenda umana - senza panico e senza
superficialità. Vanno studiate le cause e va accuratamente indagata
l'indole multiforme dell'accadimento; ma non si può neanche
attardarsi troppo nelle ricerche e nelle analisi, senza mai arrivare
a qualche provvedimento mirato e, per quel che è possibile,
efficace, perché i turbamenti e le sofferenze derivanti
dall'immigrazione sono già in atto. Un
fenomeno che ha sorpreso lo Stato Dobbiamo
riconoscere ‑ e può essere un'attenuante che siamo stati
tutti colti di sorpresa. È
stato colto di sorpresa lo Stato, che dà tuttora l'impressione di
smarrimento; e pare non abbia ancora recuperata la capacità di
gestire razionalmente la situazione, riconducendola entro le regole
irrinunciabili e gli ambiti propri dell'ordinata convivenza civile.
I provvedimenti, che via via vengono predisposti, sono eterogenei e
spesso appaiono contraddittori: denunciano la mancanza di una
qualche progettualità e, più profondamente, denotano l'assenza di
una corretta e disincantata interpretazione di ciò che sta
avvenendo. Non vediamo che ci sia una “lettura” abbastanza
penetrante dei fatti, tale che sia poi in grado di suggerire,
sviluppare e sorreggere un indirizzo coerente e saggio di
comportamento. Ha
sorpreso anche la comunità ecclesiale Sono
state colte di sorpresa anche le comunità cristiane, ammirevoli in
molti casi nel prodigarsi prontamente ad alleviare disagi e pene, ma
sprovviste finora di una visione non astratta, non settoriale e
abbastanza concorde, in grado di ispirare valutazioni e intenti
operativi che tengano conto di tutte le implicazioni degli
avvenimenti e di tutti gli aspetti della questione. Le generiche
esaltazioni della solidarietà e del primato della carità
evangelica ‑ che in sé e in linea di principio sono legittime
e anzi doverose ‑ si dimostrano più generose e ben
intenzionate che utili, se rifuggono dal commisurarsi con la
complessità del problema e la ruvidezza della realtà effettuale. Anche nella nostra esplicita consapevolezza di
pastori, non si ha l'impressione che il fenomeno dell'immigrazione
negli ultimi quindici anni ‑ nel corso dei quali esso si è
amplificato e acutizzato ‑ sia stato vivo e pungente a misura
della sua oggettiva gravità. Abbiamo
avuto in merito due estesi documenti: nel 1990 la Nota pastorale
della Commissione ecclesiale “Giustizia e pace” dal titolo: Uomini
di culture diverse: dal conflitto alla solidarietà; e nel 1993
gli Orientamenti pastorali della Commissione ecclesiale per le
migrazioni dal titolo: Ero forestiero e mi avete ospitato. Ambedue
i testi, molto estesi e analitici, sono più che altro (e
doverosamente) tesi a costruire e a diffondere nella cristianità
una “cultura dell'accoglienza”. Manca invece un po' di realismo
nel vaglio delle difficoltà e dei problemi; e soprattutto appare
insufficiente il risalto dato alla missione evangelizzatrice della
Chiesa nei confronti di tutti gli uomini, e quindi anche di coloro
che vengono a dimorare da noi. Gli auspici del pastore Vorrei
adesso dare consistenza al mio cordiale saluto ai partecipanti di
questo seminario, esprimendo semplicemente alcuni auspici: nascono
dalla riflessione e dal cuore di un vescovo, rivelano più che altro
le sue sollecitudini apostoliche e sono formulati nel rispetto di
quanti ‑ studiosi, operatori sociali, pubbliche autorità -
sono chiamati in causa dalla necessità di dare rapida e sufficiente
risposta all'emergenza che qui prende il nostro interesse. Non dovrebbe essere inutile che agli esami e alle
considerazioni di natura politica, economica, antropologica,
culturale dei competenti (e prestando ad essi la dovuta attenzione)
si aggiunga anche la prospettiva di chi ‑ essendo a tutti gli
effetti cittadino italiano e avendo l'originale presunzione di poter
esporre anche in quanto tale il proprio parere ‑ si sente
soprattutto responsabile del presente e dell'avvenire del gregge di
Cristo che gli è stato affidato; e, tra l'altro, non può mai
dimenticare l'inquietante domanda che il Signore Gesù ha lasciato
senza risposta: “Il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la
fede sulla terra?” (Lc 18,8). Gli
auspici per lo Stato e la società civile L'auspicio
sostanziale che crediamo di dover formulare per lo Stato e la
società civile, è che si chiariscano e siano comunemente accolte
alcune persuasioni previe, sicché ci si accosti al fenomeno
dell'immigrazione provvisti di una “cultura” plausibile
largamente condivisa. È
incontestabile, per esempio, il principio che a ogni popolo debbano
essere riconosciuti gli spazi, i mezzi, le condizioni che gli
consentano non solo di sopravvivere ma anche di esistere e
svilupparsi secondo quanto è richiesto dalla dignità umana. Gli
organismi internazionali sono sollecitati a farsi carico delle
iniziative atte a conseguire questa meta e non possono perdere di
vista questo necessario ideale di giustizia distributiva generale; e
tutto ciò vale ‑ in modo proporzionato e secondo le reali
possibilità ‑ anche per i singoli stati. Ma
non se ne può dedurre ‑ se si vuol essere davvero “laici”
oltre tutti gli imperativi ideologici ‑ che una nazione non
abbia il diritto di gestire e regolare l'afflusso di gente che vuol
entrare a ogni costo. Tanto meno se ne può dedurre che abbia il
dovere di aprire indiscriminatamente le proprie frontiere. Bisogna piuttosto dire che ogni auspicabile
progetto di pacifico inserimento suppone ed esige che gli accessi
siano vigilati e regolamentati. È tra l'altro davanti agli occhi di
tutti che gli ingressi arbitrari ‑ quando hanno fama di essere
abbastanza agevolmente effettuabili ‑ determinano fatalmente
da un lato il dilatarsi incontrollato della miseria e della
disperazione (e spesso pericolose insorgenze di intolleranza e di
rifiuto assoluto), dall'altro il prosperare di un'industria
criminale di sfruttamento di chi aspira a varcare clandestinamente i
confini. Progetti
realistici complessivi Ciò
che dobbiamo augurare al nostro Stato e alla società italiana è
che si arrivi presto a un serio dominio della situazione, in modo
che il massiccio arrivo di stranieri nel nostro paese sia
disciplinato e guidato secondo progetti concreti e realistici di
inserimento che mirino al vero bene di tutti, sia dei nuovi arrivati
sia delle nostre popolazioni. Tali
progetti dovrebbero contemplare tanto la possibilità di un lavoro
regolarmente remunerato quanto la disponibilità di alloggi
dignitosi non gratuiti: per questa strada si potrà arrivare a un
sicuro innesto entro il nostro organismo sociale, senza
discriminazioni e senza privilegi. Chi
viene da noi deve sapere subito che gli sarà richiesto, come
necessaria contropartita dell'ospitalità, il rispetto di tutte le
norme di convivenza che sono in vigore da noi, comprese quelle
fiscali. Diversamente non si farebbe che suscitare e favorire
perniciose crisi di rigetto, ciechi atteggiamenti di xenofobia e
l'insorgere di deplorevoli intolleranze razziali. Criteri attuativi La
pratica attuazione di questi progetti obbedirà necessariamente a
criteri che saranno anche economici: l'Italia ha bisogno di forze
lavorative che non riesce più a trovare nell'ambito della sua
popolazione. A questo proposito, dovrebbero essere tutti ormai
persuasi di quanto sia stata insipiente la linea perseguita negli
ultimi quarant'anni, con l'ossessivo terrorismo culturale
antidemografico e con l'assenza di ogni correttivo legislativo e
politico che ponesse qualche rimedio all'egoistica e stolta
denatalità, da molto tempo ai vertici delle statistiche mondiali.
Tutto questo nonostante l'esempio contrario delle nazioni d'Europa
più accorte, più lungimiranti, più civili, che non hanno esitato
a prendere in questo campo intelligenti e realistici provvedimenti. La salvaguardia dell'identità nazionale Ma
i criteri di cui si parla non potranno essere soltanto economici e
previdenziali. Una
consistente immissione di stranieri nella nostra penisola è
accettabile e può riuscire anche benefica, purché ci si preoccupi
seriamente di salvaguardare la fisionomia propria della nazione.
L'Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia,
senza tradizioni vive e vitali, senza una inconfondibile fisionomia
culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non
ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non
deve andare perduto. Sotto
questo profilo, uno Stato davvero “laico” - che cioè abbia di
mira non il trionfo di qualche ideologia, ma il vero bene degli
uomini e delle donne sui quali esercita la sua attività di
amministrazione e di governo, e voglia loro preparare con accortezza
un desiderabile futuro ‑ dovrebbe avere tra le sue
preoccupazioni primarie quella di favorire la pacifica integrazione
delle genti (come si è già storicamente verificato nell'incontro
tra le popolazioni latine e quelle germaniche sopravvenute) o quanto
meno una coesistenza non conflittuale; una compresenza e una
coesistenza che comunque non conducano a disperdere la nostra
ricchezza ideale o a snaturare la nostra specifica identità. Bisogna perciò concretamente operare perché
coloro che intendono stabilirsi da noi in modo definitivo “si
inculturino” nella realtà spirituale, morale, giuridica del
nostro paese, e vengano posti in condizione di conoscere al meglio
le tradizioni letterarie, estetiche, religiose della peculiare
umanità della quale sono venuti a far parte. A
questo fine, le concrete condizioni di partenza degli immigrati non
sono ugualmente propizie; e le autorità non dovrebbero trascurare
questo dato della questione. In
una prospettiva realistica, andrebbero preferite (a parità di
condizioni, soprattutto per quel che si riferisce all'onestà delle
intenzioni e al corretto comportamento) le popolazioni cattoliche o
almeno cristiane, alle quali l'inserimento risulta enormemente
agevolato (per esempio i latino‑americani, i filippini, gli
eritrei, i provenienti da molti paesi dell'Est Europa, eccetera);
poi gli asiatici (come i cinesi e i coreani), che hanno dimostrato
di sapersi integrare con buona facilità, pur conservando i tratti
distintivi della loro cultura. Questa linea di condotta ‑
essendo “laicamente” motivata - non dovrebbe lasciarsi
condizionare o disanimare nemmeno dalle possibili critiche sollevate
dall'ambiente ecclesiastico o dalle organizzazioni cattoliche. Come
si vede, si propone qui semplicemente il “criterio
dell'inserimento più agevole e meno costoso”: un criterio
totalmente ed esplicitamente “laico”, a proposito del quale
evocare gli spettri del razzismo, della xenofobia, della
discriminazione religiosa, dell'ingerenza clericale e perfino della
violazione della Costituzione, sarebbe un malinteso davvero mirabile
e singolare; il quale, se effettivamente si verificasse, ci
insinuerebbe qualche dubbio sulla perspicacia degli opinionisti e
dei politici italiani. Il caso dei musulmani Se non si vuol eludere o censurare tale realistica
attenzione, è evidente che il caso dei musulmani vada trattato a
parte. Ed è sperabile che i responsabili della cosa pubblica non
temano di affrontarlo a occhi aperti e senza illusioni. Gli islamici ‑ nella stragrande maggioranza
e con qualche eccezione ‑ vengono da noi risoluti a restare
estranei alla nostra “umanità”, individuale e associata, in
ciò che ha di più essenziale, di più prezioso, di più
“laicamente” irrinunciabile: più o meno dichiaratamente, essi
vengono a noi ben decisi a rimanere sostanzialmente “diversi”,
in attesa di farci diventare tutti sostanzialmente come loro. Hanno
una forma di alimentazione diversa (e fin qui poco male), un diverso
giorno festivo, un diritto di famiglia incompatibile col nostro, una
concezione della donna lontanissima dalla nostra (fino a praticare
la poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente
integralista della vita pubblica, sicché la perfetta
immedesimazione tra religione e politica fa parte della loro fede
indubitabile e irrinunciabile, anche se aspettano prudentemente a
farla valere di diventare preponderanti. Non sono dunque gli uomini
di Chiesa, ma gli stati occidentali moderni a dover far bene i loro
conti a questo riguardo. Va
anzi detto qualcosa di più: se il nostro Stato crede sul serio
nell'importanza delle libertà civili (tra cui quella religiosa) e
nei princìpi democratici, dovrebbe adoperarsi perché essi siano
sempre più diffusi, accolti e praticati a tutte le latitudini. Un
piccolo strumento per raggiungere questo scopo è quello della
richiesta che venga data una “reciprocità” non puramente
verbale da parte degli stati di origine degli immigrati. Scrive a questo proposito la Nota CEI del 1993:
“In diversi paesi islamici è quasi impossibile aderire e
praticare liberamente il cristianesimo. Non esistono luoghi di
culto, non sono consentite manifestazioni religiose fuori
dell'islam, né organizzazioni ecclesiali per quanto minime. Si pone
così il difficile problema della reciprocità. È questo un
problema che non interessa solo la Chiesa, ma anche la società
civile e politica, il mondo della cultura e delle stesse relazioni
internazionali. Da parte sua il papa è instancabile nel chiedere a
tutti il rispetto del diritto fondamentale della libertà
religiosa” (n. 34). Ma ‑ diciamo noi ‑ chiedere serve
a poco, anche se il papa non può fare di più. Per
quanto possa apparire estraneo alla nostra mentalità e persino
paradossale, il solo modo efficace e non velleitario di promuovere
il “principio di reciprocità” da parte di uno Stato davvero
“laico” e davvero interessato alla diffusione delle libertà
umane, sarebbe quello di consentire in Italia per i musulmani, sul
piano delle istituzioni da autorizzare, solo ciò che nei paesi
musulmani è effettivamente consentito per gli altri. Cattolicesimo “religione nazionale storica” Quanto
ai rapporti da intrattenere con le diverse religioni, che sono
presenti tra noi in conseguenza dell’ immigrazione, sarà bene che
nessuno ignori o dimentichi che il cattolicesimo ‑ che
indiscutibilmente non è più la “religione ufficiale dello
Stato” ‑ rimane nondimeno la “religione storica” della
nazione italiana, la fonte precipua della sua identità,
l'ispirazione determinante delle nostre più vere grandezze. Sicché
è del tutto incongruo assimilarlo socialmente alle altre forme
religiose o culturali, alle quali dovrà essere assicurata piena e
autentica libertà di esistere e di operare, senza però che questo
comporti un livellamento innaturale o addirittura un annichilimento
dei più alti valori della nostra civiltà. Va anche detto che è una singolare visione della
democrazia il far coincidere il rispetto degli individui e delle
minoranze con il non rispetto della maggioranza e l'eliminazione di
ciò che è acquisito e tradizionale in una comunità umana.
Dobbiamo qui segnalare purtroppo casi sempre più numerosi di
questa, che è una “intolleranza sostanziale”, per esempio
quando nelle scuole si aboliscono i segni e gli usi cattolici per la
presenza di alcuni di altre fedi. Alle comunità ecclesiali Che
cosa diremo di illuminante e di pratico alle comunità cristiane,
che di questi tempi sono per la verità afflitte da poca chiarezza
di idee e da molte incertezze comportamentali? In
primo luogo, deve essere manifesto a tutti che non è per sé
compito della Chiesa come tale risolvere ogni problema sociale che
la storia di volta in volta ci presenta. Le nostre comunità e i
nostri fedeli non devono perciò nutrire complessi di colpa a causa
delle emergenze anche imperiose che essi con le loro forze non
riescono ad appianare. Sarebbe un implicito, ma comunque
intollerabile e grave “integralismo” il credere che le
aggregazioni ecclesiali e i cattolici possano essere
responsabilizzati di tutto. Qualche
volta i malintesi sono involontariamente propiziati dalle pubbliche
autorità che, quando non sanno che pesci pigliare, fanno appello
alle nostre supplenze e fatalmente ci coinvolgono (dando in tal modo
implicito riconoscimento che le organizzazioni ecclesiali sono tra
quelle che in Italia riescono ancora a funzionare). L'annuncio
del Vangelo e l'osservanza della carità Compito
primario e indiscutibile delle comunità ecclesiali è l'annuncio
del Vangelo e l'osservanza del comando dell'amore. Di fronte a un
uomo in difficoltà ‑ quale che sia la sua razza, la sua
cultura, la sua religione, la legalità della sua presenza ‑ i
discepoli di Gesù hanno il dovere di amarlo operosamente e di
aiutarlo a misura delle loro concrete possibilità. Il
Signore ci chiederà conto della genuinità e dell'ampiezza della
nostra carità e ci domanderà se abbiamo fatto tutto il possibile.
Su questo però ‑ sarà bene che nessuno se lo dimentichi
‑ noi siamo tenuti a rispondere non ad altri, ma solo al
Signore. Non
surrogabilità dell'evangelizzazione Dovere
statutario della Chiesa Cattolica e compito di ogni battezzato è di
far conoscere esplicitamente Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio
morto per noi e risorto, oggi vivo e Signore dell'universo, unico
Salvatore di tutti. Tale
missione può essere coadiuvata ma non surrogata dall'attività
assistenziale che riusciremo a offrire ai nostri fratelli. Suppone
la nostra attitudine al dialogo sincero, aperto, rispettoso con
tutti, ma non può risolversi nel solo dialogo. È favorita dalla
conoscenza oggettiva delle posizioni altrui, ma si avvera soltanto
nella conoscenza di Cristo cui noi riusciamo a portare i nostri
fratelli, che sventuratamente ancora non ne sono gratificati. Inoltre
l'azione evangelizzatrice è di sua natura universale e non tollera
deliberate esclusioni di destinatari. Il Signore non ci ha detto:
“Predicate il Vangelo ad ogni creatura, tranne i musulmani, gli
ebrei e il Dalai Lama” (cf Mc 16,15). Chi ci contestasse la
legittimità o anche solo l'opportunità di questo annuncio
illimitato e inderogabile, peccherebbe di intolleranza nei nostri
confronti: ci proibirebbe infatti di essere quello che siamo, vale a
dire “cristiani”; cioè obbedienti alla chiara ed esplicita
volontà di Cristo. È molto importante che tutti i cattolici si
rendano conto di questa loro indeclinabile responsabilità. E per
essere buoni evangelizzatori, persuasi dentro di sì e persuasivi
nei confronti degli altri, essi devono crescere sempre più nella
intelligenza e nella gioiosa ammirazione degli immensi tesori di
verità, di sapienza, di consolante speranza che hanno la fortuna di
possedere: è una effusione sovrumana, anzi divinizzante di luce,
assolutamente inconfrontabile con i pur preziosi barlumi offerti
dalle varie religioni e dall'Islam; e noi siamo chiamati a proporla
appassionatamente e instancabilmente a tutti i figli di Adamo. Approccio
realisticamente differenziato Le
comunità cristiane ‑ in funzione di un approccio sapiente e
realistico al fenomeno dell'immigrazione - non possono non valutare
attentamente i singoli e i gruppi, in modo da assumere poi gli
atteggiamenti più pertinenti e più opportuni. Agli
immigrati cattolici ‑ quale che sia la loro lingua e il colore
della loro pelle ‑ bisogna far sentire nella maniera più
efficace che all'interno della Chiesa non ci sono “stranieri”:
essi a pieno titolo entrano a far parte della nostra famiglia di
credenti, e vanno accolti con schietto spirito di fraternità. Quando
sono presenti in numero rilevante e in aggregazioni omogenee
consistenti, andranno sinceramente incoraggiati a conservare la loro
tipica tradizione cattolica, che sarà oggetto di affettuosa
attenzione da parte di tutti. La compresenza di queste diverse
“forme” di vita ecclesiale e di culto autentico costituirà
senza dubbio un arricchimento spirituale per l'intera cristianità. Ai
cristiani delle antiche Chiese orientali, che non sono ancora nella
piena comunione con la Sede di Pietro, esprimeremo simpatia e
rispetto. E, in conformità agli eventuali accordi generali e
secondo l'opportunità, potremo favorirli anche dell'uso di qualche
nostra chiesa per le loro celebrazioni. Gli appartenenti alle religioni non cristiane
vanno amati e, quanto è possibile, aiutati nelle loro necessità.
Da alcuni di loro ‑ segnatamente dai musulmani ‑
possiamo tutti imparare la fedeltà ai loro esercizi rituali e ai
loro momenti di preghiera, ma non tocca a noi prestare positive
collaborazioni alla loro pratica religiosa. A
questo proposito, è utile richiamare quanto è disposto dalla Nota
CEI del 1993, già citata: “Le comunità cristiane, per evitare
inutili fraintendimenti e confusioni pericolose, non devono mettere
a disposizione, per incontri religiosi di fedi non cristiane,
chiese, cappelle e locali riservati al culto cattolico, come pure
ambienti destinati alle attività parrocchiali” (n. 34). Come
si può capire dalla complessità di questa problematica, non è
ammissibile che essa sia affrontata “in toto” dalla “Caritas
italiana”, che ha un ben delimitato campo di valutazione e di
interesse. Sui temi della evangelizzazione, della identità
cristiana del nostro popolo, delle concrete difficoltà
pastorali ‑ e dunque sulla questione della immigrazione
globalmente intesa ‑ non dovrebbero esserci deleghe a nessun
particolare organismo ecclesiale. Conclusione
In
un'intervista di una decina d'anni fa, mi è stato chiesto con molto
candore e con invidiabile ottimismo: “Ritiene anche Lei che
l'Europa o sarà cristiana o non sarà?”. Mi pare che la mia
risposta di allora possa ben servire alla conclusione del mio
intervento di oggi. Io penso - dicevo - che l'Europa o ridiventerà
cristiana o diventerà musulmana. Ciò che mi pare senza avvenire è
la “cultura del niente”, della libertà senza limiti e senza
contenuti, dello scetticismo vantato come conquista intellettuale,
che sembra essere l'atteggiamento largamente dominante nei popoli
europei, più o meno tutti ricchi di mezzi e poveri di verità. Questa “cultura del niente” (sorretta dall'edonismo e dalla
insaziabilità libertaria) non sarà in grado di reggere all'assalto
ideologico dell'Islam, che non mancherà: solo la riscoperta
dell'“avvenimento cristiano” come unica salvezza per l'uomo
‑ e quindi solo una decisa risurrezione dell'antica anima
dell'Europa - potrà offrire un esito diverso a questo inevitabile
confronto. Purtroppo
né i “laici” né i “cattolici” pare si siano finora resi
conto del dramma che si sta profilando. I “laici”, osteggiando
in tutti i modi la Chiesa, non si accorgono di combattere
l'ispiratrice più forte e la difesa più valida della civiltà
occidentale e dei suoi valori di razionalità e di libertà:
potrebbero accorgersene troppo tardi. I “cattolici”, lasciando
sbiadire in se stessi la consapevolezza della verità posseduta e
sostituendo all'ansia apostolica il puro e semplice dialogo a ogni
costo, inconsciamente preparano (umanamente parlando) la propria
estinzione. La
speranza è che la gravità della situazione possa a un certo
momento portare a un efficace risveglio sia della ragione sia
dell'antica fede. È
il nostro augurio, il nostro impegno, la nostra preghiera. Bologna, 30 settembre 2000
GIACOMO CARD. BIFFI
arcivescovo
di Bologna
NOI
E L'ISLAM - dall’accoglienza al dialogo Discorso di S.Em.
Card. Carlo Maria Martini alla Chiesa ed alla Città di Milano,
nella vigilia della festa di sant’Ambrogio, il 6 dicembre 1990. _________________________________________ Dal Libro della Genesi (21, 13-20) 1. Premessa 2. Chi siamo "noi" e chi è
"l'islam" 3. I valori storici dell'islam 4. L’islam in Europa 5. L’atteggiamento della Chiesa e il
dialogo 6. Annunciare il Vangelo di Gesù 7. Conclusione _________________________________________
Dal Libro della Genesi (21, 13-20):
In quel tempo Dio disse ad Abramo: "Io farò diventare una
grande nazione anche il
figlio della schiava, perché è tua prole". Abramo si alzò di
buon mattino, prese il
pane e un otre di acqua e li diede ad Agar, caricandoli sulle
sue spalle; le consegnò il fanciullo e la mandò via. Essa se
ne andò e si smarrì per
il deserto di Bersabea. Tutta l’acqua dell’otre era venuta a
mancare. Allora essa
depose il fanciullo sotto un cespuglio e andò a sedersi di fronte,
alla distanza di un tiro d’arco, perché diceva: "Non
voglio veder morire il fanciullo!".
Quando gli si fu seduta di fronte, egli alzò la voce e pianse. Ma
Dio udì la voce del fanciullo e un angelo di Dio chiamò Agar
dal cielo e le disse:
"Che hai Agar? Non temere, perché Dio ha udito la voce del
fanciullo là dove di
trova. Alzati, prendi il fanciullo e tienilo per mano, perché io ne
farò una grande nazione". Dio le aprì gli occhi ed essa
vide un pozzo d’acqua. Allora andò a riempire l’otre e fece bere il fanciullo. E
Dio fu con il fanciullo,
che crebbe e abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco. 1. PREMESSA
Il racconto che abbiamo ascoltato, tratto dal più antico libro
della Scrittura, il libro della Genesi, ci parla di un figlio di
Abramo che non fu
capostipite del popolo ebraico, come lo sarebbe stato Isacco, ma a cui
ugualmente sono state riservate alcune benedizioni di Dio. "Io
farò diventare una grande nazione anche il figlio della schiava,
perché è tua prole" promette Dio ad Abramo. E infine nel racconto si dice: "Dio fu con il fanciullo". Le reali vicende di questo Ismaele e dei
suoi figli rimangono oscure nella storia del secondo e primo millennio
avanti Cristo, ma è
chiaro che il riferimento biblico va ad alcune tribù beduine abitanti
intorno alla Penisola Arabica. Da tali tribù doveva nascere
molti secoli dopo Maometto, il profeta dell’islam. Oggi, in un momento in cui il mondo arabo
ha assunto una straordinaria rilevanza sulla scena internazionale e in
parte anche nel nostro
paese, non possiamo dimenticare questa antica benedizione che mostra
la paterna provvidenza di Dio per tutti i suoi figli.
Ed è di questo che vorrei parlarvi oggi, festa di
sant’Ambrogio, in quello spirito di attenzione agli eventi della
città che hanno caratterizzato
la vita del nostro patrono. Esprimerò
qualche riflessione non sul fenomeno dell’islam in generale, ma su
quanto ci tocca oggi a Milano e nel contesto
europeo, a seguito delle nuove forme di presenza dell’islam
tra noi. Ho scelto come
titolo preciso di questa conversazione Noi e l’islam. 2. CHI SIAMO "NOI" E CHI
E’ "L’ISALM". Per
noi intendo anzitutto il noi della comunità ecclesiale, della diocesi
di Milano e, in seconda istanza, anche il noi della
comunità civile cittadina, provinciale e regionale.
Certamente il problema posto dall’islam in Europa è molto
più vasto. Abbiamo avuto occasione di dirlo l’anno scorso, in
questa stessa sede, parlando dell’accoglienza ai
terzomondiali. La presenza di numerosi gruppi etnici di
fede musulmana nei nostri paesi europei comporta anzitutto una serie
di problemi riguardanti
la prima accoglienza e assistenza, la casa, il lavoro. Uno sforzo che
impegna tutti; e le comunità cristiane della nostra
diocesi hanno dato prova questo anno di grande spirito di
solidarietà. Tale
compito di prima sistemazione in accordo con le leggi vigenti riguarda
in primo luogo la comunità civile, sia pure in
collaborazione con le forze di volontariato. Ma è evidente che
tutti noi, comunità civile ed ecclesiale, non potremo limitarci in
avvenire ai provvedimenti sopraindicati. Nasceranno via via
nuovi problemi riguardanti la riunione delle famiglie, la situazione
sociale e giuridica dei nuovi immigrati, la loro integrazione
sociale mediante una conoscenza più approfondita della lingua, il
problema scolastico dei figli, i problemi dei diritti civili,
etc. Non entro
direttamente in tali temi perché ho avuto modo di parlarne in diverse
occasioni. Vorrei solo richiamare qui, prima di
abbordare il tema più specifico, un punto che mi è sembrato
finora poco atteso e cioè la necessità di insistere su un processo
di "integrazione",
che è ben diverso da una semplice accoglienza e da una qualunque
sistemazione. Integrazione
comporta l’educazione dei nuovi venuti a inserirsi armonicamente nel
tessuto della nazione ospitante, ad accettare
le leggi e gli usi fondamentali, a non esigere dal punto di
vista legislativo trattamenti privilegiati che tenderebbero di fatto a
ghettizzarli e a farne potenziali focolai di tensioni e
violenze. Finora l’emergenza ha un po’ chiuso
gli occhi su questo grave problema. In proposito, il recente documento
della Commissione Giustizia
e Pace della CEI dice: "Non va dimenticata la necessità di
regole e tempi adeguati per l’assimilazione di questa nuova
forma di convivenza, perché l’accoglienza senza regole non
si trasformi in dolorosi conflitti" (Uomini di culture diverse,
dal conflitto alla solidarietà, 25 marzo 1990, n. 33).
E’ necessario in particolare far comprendere a quei nuovi
immigrati che provenissero da paesi dove le norme civili sono
regolate dalla sola religione e dove religione e stato formano
un’unità indissolubile, che nei nostri paesi i rapporti tra lo
stato e le organizzazioni religiose sono profondamente diversi. Se le
minoranze religiose hanno tra noi quelle libertà e diritti che
spettano a tutti i
cittadini, senza eccezione, non ci si può invece appellare, ad
esempio, ai principi della legge islamica (sciariaa) per esigere spazi
e prerogative giuridiche specifiche. Occorre perciò elaborare un cammino
verso l’integrazione multirazziale che tenga conto di una reale
integrabilità di diversi gruppi
etnici. Perché si
abbia una società integrata è necessario assicurare l’accettazione
e la possibilità di assimilazione di almeno un nucleo
minimo di valori che costituiscono la base di una cultura, come
ad esempio i principi della Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo e il principio giuridico dell’uguaglianza di
tutti di fronte alla legge. Ci
sono infatti popoli ed etnie che hanno una storia e una cultura molto
diverse dalle nostre e di cui ci si può domandare se
intendano nello stesso senso i diritti umani e anche la nozione
di legge. Ciò vale a
fortiori dove si verificano fenomeni che
genericamente chiamiamo col nome di integralismi o
fondamentalismi, che tendono a creare comunità separate e che si
ritengono superiori alle altre. Ma questo è un problema che
nel suo insieme riguarda la comunità civile e la causa della pacifica
convivenza tra le etnie ed io mi limito a richiamarlo.
Connesso a questo è però il problema della possibilità anche
di un dialogo interreligioso senza il quale sembra difficile
assicurare una tranquillità sociale. Ora questo dialogo è
possibile? Vi sono pronti i musulmani? Vi siamo pronti noi cristiani? Come vedete, si passa a poco a poco dai
problemi che toccano la comunità civile nel suo insieme a quelli più
propriamente religiosi,
che consistono sostanzialmente, per noi cristiani, nella necessità di
valutare e capire a fondo l’islam oggi e nel disporci
al massimo di accoglienza e di dialogo possibile, senza per
questo rinunciare ad alcun valore autentico, anzi approfondendo il
senso del Vangelo. Si
tratta in sostanza di rispondere a domande come queste:
a. Che cosa dobbiamo pensare oggi noi cristiani dell’islam
come religione?
b. L’islam in Europa sarà anch’esso secolarizzato,
entrando quindi in una nuova fase della sua acculturazione europea?
c. Quale dialogo e in genere quale rapporto sul piano religioso
è possibile oggi in Europa tra cristianesimo e islam?
d. La Chiesa dovrà rinunciare a offrire il Vangelo ai seguaci
dell’islam? Islam
significa etimologicamente "sottomissione" e in special modo
sottomissione a Dio e a quella rivelazione che egli ha fatto di
sé. Noi intendiamo qui per islam l’insieme di tutte le
credenze e pratiche che si richiamano a Maometto e al Corano, ben
consci della complessità
di un simile macrocosmo e delle sue molteplici ramificazioni nei
secoli. In generale possiamo dire che i "pilastri"
dell’islam, accettati da tutti i musulmani, sono: il riconoscere un
Dio solo, creatore, misericordioso
e giudice universale, e Maometto come suo profeta definitivo; la
preghiera cinque volte al giorno; il digiuno di
ramadàn; l’imposta per i poveri; il pellegrinaggio alla
Mecca una volta in vita; il gihàd interiore, cioè lo sforzo e il
combattimento per Dio, da intendersi anzitutto come
mobilitazione contro le proprie passioni per una vita giusta e la
lotta contro l’oppressione
e l’ingiustizia; l’impegno a conformarsi nel privato e nel
pubblico a quel modo di vivere chiamato sciariaa, basato
sul Corano, seguendo il quale è possibile fare la volontà di
Dio in ogni aspetto della vita: religioso, personale, familiare,
economico, politico. Di qui si vede come l’islam è una
religione in cui l’aspetto sociale e civile ha una fondamentale
importanza. Anche se i
musulmani nel mondo sono oggi diversi per origine etnica e correnti
religiose interne e sono cittadini di diversi stati
indipendenti, rimane però vero che la fede musulmana è di per
se stessa un universalismo che oltrepassa le frontiere e rimane sensibile a grandi appelli al ritorno alle origini, così
come avviene oggi nei movimenti fondamentalisti.
Se non è facile parlare di islam in generale, in conseguenza
della storia molto complessa e ricca di questa religione; più
difficile ancora è
definire il fenomeno dell’islam tra noi, dell’islam in Europa.
Troppo recente infatti è il suo nuovo tipo di presenza
nell’Europa occidentale ed è difficile persino stabilirne le
misure quantitative. I musulmani nella grande Europa sono
circa 23 milioni. Il paese che ne ha la più alta percentuale è senza
dubbio l’Unione delle Repubbliche
Sovietiche. Seguono la Francia con 2 milioni e mezzo, la Germania ex
Federale con 1.700.000, l’Inghilterra con 1
milione. Per l’Italia si parla di cifre, tra regolari e
clandestini, che vanno da 180.000 a 300.000 unità, ma probabilmente
il numero è oggi più
alto. Paesi molto più piccoli di noi rilevano una presenza
proporzionalmente assai più elevata, come l’Olanda
che ne ha 300.000 o il Belgio che ne ha 250.000.
La presenza tra noi non è quindi numericamente molto
rilevante, ma si è fatta vistosa negli ultimi anni, anche perché il
loro arrivo in Italia ha
coinciso con una ripresa delle correnti più integraliste.
E’ forse la percezione di questo aspetto che sta creando tra
noi un certo disagio e malessere, suscitando alcune delle domande
alle quali tenterò di rispondere. In quanto comunità cristiana, quali
sono i principi a cui ci richiamiamo in questa materia?
Possiamo rifarci per brevità a due tipi di testi. Anzitutto a
quelli del Concilio Vaticano II, che ha parlato dei musulmani
soprattutto in due luoghi. Al n. 16 della Lumen Gentium si dice
che "il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che
riconoscono il Creatore e, tra questi, in particolare i
musulmani, i quali professano di tenere la fede di Abramo, adorano con
noi un Dio unico,
misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giudizio finale".
Nel decreto Nostra Ætate sulle relazioni della Chiesa
cattolica con le religioni non cristiane si dice in generale che
"la Chiesa cattolica
nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni" e
"considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere
quei precetti e quelle dottrine che non raramente riflettono un
raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini". In
particolare afferma di
guardare con stima ai musulmani che "cercano di sottomettersi con
tutto il core ai decreti di Dio anche nascosti,
come si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica
volentieri si riferisce" (n. 2). E a proposito dei "dissensi
e inimicizie che sono
sorti nel corso dei secoli tra cristiani e musulmani", il
Concilio "esorta tutti a dimenticare il passato e ad esercitare
sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e
promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i
valori morali, la pace e
la libertà" (n. 3). Il Concilio ha avuto dunque cura di
richiamare elementi comuni a cristiani e musulmani. Per questo è
anche significativo che esso
abbia omesso altri temi importanti per l’islam. Non vengono
menzionati dai testi conciliari né Maometto, né il Corano, né
l’islam inteso come essenziale nesso comunitario tra i
credenti, né il pellegrinaggio alla Mecca, né la sciariaa. Viene
menzionata la comune
ascendenza abramitica, ma non Gesù, che nell’islam è presente e
però è assai lontano da come lo vede il
cristianesimo. Per
i musulmani Gesù, il figlio di Maria Vergine - e la figura di Maria
è venerata presso i musulmani -, non è né profeta
definitivo, né il Figlio di Dio e neppure è morto realmente
sulla croce. Manca così la dimensione vera e propria della
redenzione. Ai
testi conciliari che già indicano, malgrado le omissioni sopra
notate, con quale rispetto, con quale apertura di spirito e
prontezza di dialogo deve procedere un cristiano nel riflettere
sull’islam, possiamo ancora aggiungere un testo di Giovanni Paolo
II che potrà fugare anche i dubbi di quanti temono che
mediante la frequentazione e il dialogo con l’islam venga meno la chiarezza della fede cattolica. Dice Giovanni Paolo II nella
sua prima enciclica Redemptor Hominis al n. 11: "Il Concilio
ecumenico [Vaticano II] ha dato un impulso fondamentale per
formare l’autocoscienza della Chiesa, offrendoci in modo tanto
adeguato e competente la visione dell’orbe terrestre come di
una "mappa" di varie religioni". Il Concilio "è
pieno di profonda stima
per i grandi valori spirituali, anzi, per il primato di ciò che è
spirituale e trova nella vita dell’umanità la sua espressione nella religione e, inoltre, nella moralità, con diretti riflessi
su tutta la cultura . Per
l’apertura data dal Concilio Vaticano II, la Chiesa e
tutti i cristiani hanno potuto raggiungere una coscienza più
completa del mistero di Cristo, "mistero nascosto da secoli"
in Dio, per essere
rivelato nel tempo, nell’uomo Gesù Cristo e per rivelarsi
continuamente in ogni tempo".
Giovanni Paolo II non vede dunque opposizione, anzi
convergenza, tra l’attenzione al dialogo interreligioso e
l’accresciuta coscienza
della propria fede. E’ con questo spirito e con questa
fiducia che cerchiamo di rispondere alle domande che ci siamo posti
all’inizio. 3. I VALORI STORICI DELL’ISLAM Che cosa
pensare dell’islam in quanto cristiani? Che cosa significa esso per
un cristiano dal punto di vista della storia della
salvezza e dell’adempimento del disegno divino nel mondo?
Perché Dio ha permesso che l’islam, unica tra le grandi religioni
storiche, sorgesse sei secoli dopo l’evento cristiano, tanto
che alcuni tra i primi testimoni lo ritennero un’eresia cristiana,
un ramo staccato
dall’unico e identico albero? Che senso può avere nel piano divino
il sorgere di una religione in certo modo così
vicina al cristianesimo come mai nessun’altra religione
storica e insieme così combattiva, così capace di conquista, tanto
che alcuni temono che
essa possa, con la forza della sua testimonianza, fare molti proseliti
in un’Europa infiacchita e senza valori? A questa domanda così complessa non è
facile dare una risposta semplice che, tuttavia, è in parte
anticipata da quanto abbiamo
riferito del Vaticano II. Si tratta di una fede che, avendo grandi
valori religiosi e morali, ha certamente aiutato centinaia
di milioni di uomini a rendere a Dio un culto onesto e sincero
e, insieme, a praticare la giustizia. Quello della giustizia è
infatti uno dei valori più fortemente affermati dall’islam: "O
voi che credete, praticate la giustizia – dice il Corano nella Sura
IV – praticatela con
costanza, in testimonianza di fedeltà a Dio, anche a scapito vostro,
o di vostro padre, o di vostra madre, o dei
vostri parenti, sia che si tratti di un ricco o di un povero
perché Dio ha priorità su ambedue" (versetto 135).
In un mondo occidentale che perde il senso dei valori assoluti
e non riesce più in particolare ad agganciarli a un Dio Signore di
tutto, la testimonianza del primato di Dio su ogni cosa e della
sua esigenza di giustizia ci fa comprendere i valori storici che
l’islam ha portato con sé e che ancora può testimoniare
nella nostra società.
4. L’ISLAM IN EUROPA
Una seconda domanda: ci sarà una secolarizzazione per
l’islam in Europa? La
domanda è legittima se si pensa al difficile percorso del
cristianesimo nell’alveo della modernità negli ultimi tre secoli.
Il confronto tra pensiero
moderno razionale, scientifico e tecnico, tendente all’analisi e
alla distinzione dei ruoli e delle competenze
e la tradizione cristiana uscita dal mondo unitario medievale,
ha segnato un cammino faticoso di cui solo il Concilio Vaticano II
ha potuto consacrare alcuni risultati armonicamente raggiunti,
pur se non ancora del tutto recepiti. Va emergendo però sempre
più chiaramente che la fede in un Dio fatto uomo ed entrato
nelle vicende umane è una forza che permette di cogliere anche nel
divenire economico, sociale e culturale, i segni della presenza
di Dio e quindi il senso positivo di un cammino di fede nell’ambito
della modernità. Non
è pensabile che l’islam in Europa non si trovi prima o poi ad
affrontare una simile sfida. Sappiamo anzi che, dalla fine della
prima guerra mondiale fino ad oggi, vi sono state molte
proposte, tendenze, partiti, soluzioni secondo le quali il mondo
musulmano, nelle sue diverse ramificazioni, etnie e territori,
ha preso coscienza dell’avvento dell’era della tecnica e delle
esigenze di razionalità che essa comporta.
Bisogna dire però che fino ad ora la fede nei grandi
"pilastri" dell’islam non sembra aver avvertito in maniera
preoccupante la scossa
derivante dai principi della modernità. Prevalgono in questo momento
le tendenze fondamentaliste, che cercano di
appropriarsi dei risultati tecnici, ma staccandoli dalle loro
premesse culturali occidentali con la volontà di risolvere, nella
linea della tradizione
antica, tutti i problemi politici e sociali per mezzo della religione.
Non si ammette quindi separazione tra
religione e stato, tra religione e politica, e nell’interpretazione
letterale del Corano vengono
cercati tutti i principî per la risposta agli interrogativi
contemporanei, anche sociali ed economici.
E’ difficile prevedere che cosa potrà avvenire in un futuro
più remoto e non è il caso di indulgere a ipotesi azzardate. Sembra
corretto, nel quadro dell’atteggiamento di rispetto che prima
abbiamo richiamato, auspicare e aiutare affinché il trapasso
necessario ad una assunzione non puramente materiale delle
agevolazioni tecniche che vengono dall’occidente sia
accompagnato da uno sforzo serio di riflessione storico-critica
sulle proprie fonti religiose e teologiche cercando
"quell’armonia tra la visione filosofica del mondo e la legge rivelata"
(cf. L. Gardet, L’islam e i cristiani, Roma 1988, p. 114), che era
già presente in alcuni
dei filosofi arabi conosciuti e utilizzati da san Tommaso. Dobbiamo
adoperarci affinché i musulmani riescano a
chiarire e a cogliere il significato e il valore della
distinzione tra religione e società, fede e civiltà, islam politico
e fede musulmana,
mostrando che si possano vivere le esigenze di una religiosità
personale e comunitaria in una società democratica e
laica dove il pluralismo religioso viene rispettato e dove si
stabilisce un clima di mutuo rispetto, di accoglienza e di dialogo.
5. L’ATTEGGIAMENTO DELLA CHIESA E IL
DIALOGO Alla luce di quanto fin qui detto, quale dialogo
è possibile oggi e quale deve essere l’atteggiamento della nostra
Chiesa a questo proposito? Mi
pare opportuna una distinzione tra dialogo interreligioso in generale
e dialogo tra singoli credenti. Il
primo è quello che si svolge a livelli più ufficiali, tra
rappresentanti religiosi di ambo le parti. Esso ha le sue regole
indicate nel Vaticano II
e poi in documenti come le norme edite dal Segretariato per il Dialogo
Interreligioso (in particolare L’atteggiamento
della Chiesa di fronte ai seguaci di altre religioni, 1984).
Da noi a Milano esiste la Commissione diocesana per
l’Ecumenismo e il Dialogo; in questo senso lavora anche la
Segreteria per gli Esteri
ed è stato creato recentemente un Centro Ambrosiano di Documentazione
per le Religioni, con attenzione speciale per
il mondo musulmano. Sono pure da menzionare le presenze di
istituti missionari come il PIME che hanno ormai una lunga
tradizione di conoscenza e di dialogo con queste realtà. Tale
dialogo è riservato piuttosto ai competenti.
Vorrei spendere una parola per quel dialogo che si svolge a
livello quotidiano a contatto con i musulmani che incontriamo oggi
sempre più frequentemente.
Va tenuto presente il fatto che non sempre la singola persona
incarna e rappresenta tutte le caratteristiche che astrattamente
designano un credente di quella religione. Come avviene per i
cristiani, così anche per i musulmani non tutti aderiscono in
pratica e con piena coscienza ai precetti e alle dottrine
prescritte e ciò probabilmente anche a causa dello scarso retroterra
culturale di molti immigrati di recente.
Il problema non è tanto di fare grandi discussioni teologiche,
ma anzitutto di cercare di capire quali sono i valori che realmente una persona incarna nel suo vissuto per considerarli con
attenzione e rispetto. Si potranno trovare, non di rado, molte più
consonanze pratiche di quanto non avvenga in una disputa
teologica. Ciò vale soprattutto per i valori vissuti della giustizia
e della solidarietà.
Tuttavia questa considerazione individuale deve sempre tener conto
delle dinamiche di gruppo. Infatti l’islam
non è solo fede personale, bensì realtà comunitaria molto
compatta e una parola d’ordine lanciata da qualche voce autorevole
al momento opportuno può ricompattare e ricondurre a unità
serrata anche i soggettivismi o i sincretismi religiosi vissuti da un singolo individuo. Per
quanto riguarda più in generale l’atteggiamento della nostra Chiesa
e le attitudini che si raccomandano a tutti i nostri cristiani, vorrei richiamare brevemente l’attenzione su
alcuni punti che derivano dai principi sopra esposti: 1.Occorre accogliere motivando
cristianamente il perché della nostra accoglienza, dicendolo in una
lingua "comprensibile", che è più spesso quella dei fatti
e della carità, dando ai musulmani il senso dello spessore religioso
che pervade la nostra accoglienza. 2.Occorre ricercare insieme un obiettivo
comune di tolleranza e di mutua accettazione. Non mancano per questo
testi anche nel Corano. Dobbiamo sfatare a poco a poco il pregiudizio
in essi radicato che i non musulmani sono di fatto
non credenti. Solo quando ci riconosceremo nel comune solco
della fede di Abramo potremo parlarci con più distensione, superando
i pregiudizi. 3.Dobbiamo far cogliere loro che anche
noi cristiani siamo critici verso il consumismo europeo, l’indifferentismo
e il degrado morale che c’è tra noi; far vedere che prendiamo le
distanze da tutto ciò. Data la loro abitudine a veder legate
religione e società e anche in forza delle esperienze storiche delle
crociate, essi tendono a identificare l’occidente col cristianesimo
e a comprendere sotto una sola condanna i vizi dell’occidente e le
colpe dei cristiani. Bisogna far
comprendere che siamo solidali con loro nella proclamazione di
un Dio Signore dell’universo, nella condanna del male e nella
promozione della giustizia. 4.Il dialogo con i musulmani sarà in
particolare per noi un’occasione per riflettere sulla loro forte
esperienza religiosa che tutto finalizza alla riconsegna a Dio di un
mondo a lui sottomesso. In questo, il nostro giusto senso della
laicità dovrà
guardarsi dall’essere vissuto come una separazione o
addirittura opposizione tra il cammino dell’uomo e quello del
cristiano. Vi sarebbe da dire una parola più
specifica per le nostre comunità e in particolare per i presbiteri
che le presiedono. Vi sono due
posizioni errate da evitare e una posizione corretta da promuovere.
Prima posizione errata: la noncuranza del fenomeno. Il
limitarsi a pensare all’islam come a una costellazione remota che ci
sfiora soltanto di passaggio o che ci tocca per problemi di
assistenza, ma che non avrà impatto culturale e religioso nelle
nostre comunità. Da tale
posizione si scivola facilmente a sentimenti di disagio e quasi di
rifiuto o di intolleranza. Seconda posizione errata: lo zelo
disinformato. Si fa di ogni erba un fascio, si propugna
l’uguaglianza di tutte le fedi senza
rispettarle nella loro specificità, si offrono
indiscriminatamente spazi di preghiera o addirittura luoghi di culto
senza aver prima ponderato
che cosa significhi questo per un corretto rapporto interreligioso. Al
riguardo saranno necessarie norme precise e
rigorose, anche per evitare di essere fraintesi. La posizione corretta è lo sforzo serio
di conoscenza, la ricerca di strumenti e l’interrogazione di persone
competenti. Penso, in
particolare, ai casi molto difficili e spesso fallimentari dei
matrimoni misti. Esistono ormai nell’ambito della diocesi
persone di riferimento, corsi e specialisti che sono a
disposizione. Un supplemento di cultura e di conoscenza in questo
campo sarà necessario in
avvenire, in particolare per i preti. Come è chiaro in quanto
abbiamo detto, pensiamo fermamente che il tempo delle lotte di
conquista da una parte e delle crociate
dall’altra debba considerarsi come finito.
Noi auspichiamo rapporti di uguaglianza e fraternità e
insistiamo e insisteremo perché a tali rapporti si conformi anche il
costume e il diritto vigente nei paesi musulmani riguardo ai
cristiani, perché si abbia una giusta reciprocità.
Conosciamo i problemi giuridici e teologici che i nostri
fratelli dell’islam hanno nei loro paesi per riconoscere alle
comunità cristiane
minoritarie i diritti che da noi sono riconosciuti alle minoranze, ma
non possiamo pensare che tali problemi non possano
essere risolti affidandosi a quella conduzione divina della
storia che è vanto dell’islam aver sempre accettato in mezzo a
tante dolorose
vicissitudini. Il nostro
atteggiamento vuole in ogni caso ispirarsi a quello di san Francesco
d’Assisi che scriveva nella sua Regola, al capitolo
XVI: Di coloro che vanno tra i saraceni: "I frati che
vanno tra i saraceni col permesso del loro ministro e servo possono
ordinare i rapporti spirituali in mezzo a loro in due modi. Un
modo è che non facciano liti e dispute, ma siano soggetti ad ogni
creatura umana per amore di Dio e confessino di essere
cristiani. L’altro è che, quando vedranno che piace al Signore,
annunzino la Parola di Dio e tutti i frati, ovunque sono, si
ricordino che hanno consegnato e abbandonato il loro corpo al
Signore nostro Gesù Cristo e che per suo amore devono esporsi
ai nemici sia visibili che invisibili".
Nessuna contesa dunque, nessun uso della forza; esposizione
sincera e a tempo opportuno di ciò che credono; accettazione
anche di disagi e sofferenze per amore di Cristo. 6. ANNUNCIARE IL VANGELO DI GESU’
Una quarta e ultima domanda: può la Chiesa rinunciare ad
annunciare il Vangelo ai musulmani?
Occorre fare anzitutto una distinzione. Altro è infatti
l’annuncio, altro è il dialogo.
Il dialogo parte dai punti comuni, si sforza di allargarli
cercando ulteriori consonanze, tende all’azione comune sui campi in
cui è possibile subito
una collaborazione, come sui temi della pace, della solidarietà e
della giustizia. L’annuncio
è la proposta semplice e disarmata di ciò che appare più caro ai
propri occhi, di ciò che non si può imporre né
barattare con alcunché, di ciò che costituisce il tesoro a
cui si vorrebbe che tutti attingessero per la loro gioia.
Per il cristiano il tesoro più caro è la croce, è il mistero
di un Dio che si dona nel suo Figlio fino ad assumere su di sé il
nostro male e quello del
mondo perché noi ne usciamo fuori.
Non sempre questo annuncio può essere fatto in modo esplicito,
soprattutto nelle società chiuse e intolleranti. E’ un caso oggi
non infrequente in alcuni paesi. Ma pure nei paesi cosiddetti
liberi ci si scontra talora con chiusure mentali così forti da
costituire quasi una
barriera. Allora la proposta assume la forma della testimonianza
quotidiana, semplice e spontanea, e quella della
carità e anche del dono della vita, fino al martirio. E’ il
principio sopra ricordato di san Francesco.
Con questa distinzione riprendiamo dunque la nostra ultima
domanda: può la Chiesa cattolica rinunciare a proporre il Vangelo a
chi ancora non lo possiede? Certamente no, come ai musulmani non
viene chiesto di rinunciare al loro desiderio di allargare la umma, la
comunità dei credenti. Ciò che conterà sarà lo stile, il modo, cioè quelle
caratteristiche di rispetto e di amore, quello stile di attenzione e
di desiderio di comunicare
la gioia nella pace che è proprio di chi accetta le Beatitudini. Questo stile non è senza riscontri anche nel mondo dell'islam. Si legge infatti nel Corano: "Chiama gli uomini alla Via del Signore, con saggi ammonimenti e buoni, e discuti con loro nel modo migliore... pazienta e sappi che il tuo pazientare è solo possibile in Dio... perciocché Dio è con coloro che lo temono, con coloro che fanno del bene" (XVI, 125-127). Raggiungeremo così tutti anche
quell’atteggiamento missionario che ha caratterizzato il ministero
di Ambrogio in mezzo ai pagani
del suo tempo. 7. CONCLUSIONE
Maometto nasce due secoli dopo il tempo di sant’Ambrogio e
non vi è quindi nell’opera del santo nulla che si riferisca
direttamente al nostro tema, ma è interessante notare che la
comunità di Ambrogio era una comunità religiosamente minoritaria.
Due terzi della popolazione che in quel tempo abitava nella zona di
Milano non era cristiana. Eppure "sembra che a Milano non
esistesse un ministero organizzato per l’evangelizzazione dei
pagani. Nel De officiis ministrorum Ambrogio non dà alcuna istruzione ai chierici per il lavoro di conversione dei
pagani" (cf. V. Monachino, S. Ambrogio e la cura pastorale a
Milano nel secolo IV, Milano 1973, p. 48). La via ordinaria per la
quale essi venivano a conoscenza del cristianesimo era la frequenza
libera alla predicazione, aperta a tutti, i colloqui con il vescovo,
come nel caso di Agostino, e specialmente il contatto con i cristiani
e la loro condotta esemplare.
Ambrogio poneva la sua cura nel far progredire la comunità
cristiana come tale; per mezzo di essa, e non con un ministero
organizzato, avveniva l’influsso sui pagani. Non dunque un proselitismo invadente,
bensì l’immagine di una comunità plasmata dal Vangelo e
dall’Eucaristia, zelante nella
carità, libera e serena nel suo impegno civile quotidiano,
coraggiosa nelle prove, sempre piena di speranza.
E’ questa la nostra forza principale oggi, in un mondo
secolarizzato, e questa forza è quella delle origini, quella della
Chiesa di sant’Ambrogio
e della Chiesa dei giorni nostri. Card. Carlo Maria Martini Milano - 6
dicembre 1990
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