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La libertà di licenziare ai tempi della crisi

di Paolo Sylos Labini


In un tempo non sospetto, nel 1985, quando la stessa Confindustria non se la
sentiva di affrontare l'argomento, pubblicai su 'Repubblica' un articolo in
cui sostenevo che l'estrema difficoltà di licenziare, stabilita nell'
originario Statuto dei lavoratori, bloccava la crescita dell'occupazione; d'
altra parte però sostenevo e tuttora sostengo che l'incondizionata libertà
di licenziare è dannosa, per due ragioni. Innanzi tutto i lavoratori non si
sentono legati all'impresa e perciò non sono indotti a migliorare le
capacità adatte allo specifico processo produttivo; in secondo luogo vengono
scoraggiate le innovazioni volte a risparmiare lavoro, con danno per la
crescita della produttività e quindi per la competitività internazionale e
con l'indebolimento della domanda di diversi tipi di macchinari. Il
confronto con gli Stati Uniti, dove vige piena libertà di licenziare, è
illuminante. Negli ultimi vent'anni in quel paese la crescita dell'
occupazione è stata cospicua, più rapida che in Italia e, in generale, in
Europa, ma i salari reali, a differenza che in Europa, hanno oscillato su un
livello pressoché stazionario e la crescita della produttività è stata
modesta - molti economisti, senza guardare i dati, sono convinti che la
produttività sia cresciuta più negli Stati Uniti che in Europa, ma questo è
vero per certi settori particolarmente dinamici, non per la media dei
settori. Che una debole crescita della produttività danneggi la
competitività internazionale può essere indicato dal fatto che da parecchi
anni la bilancia commerciale americana è in forte deficit; se finora ciò non
ha avuto conseguenze disastrose è dovuto agli afflussi di capitali, rivolti
all'acquisto di titoli e di dollari - il dollaro è moneta di riserva. Noi,
con una piena libertà di licenziare, non potremmo avere un tale vantaggio ed
anzi avremmo l'ulteriore svantaggio di una più debole crescita della
meccanica, che è uno dei punti di forza della nostra industria. Del resto,
quando pochi mesi fa il dr. Ciocca, vice direttore della Banca d'Italia,
contestò che gl'investimenti degli industriali erano inferiori a quelli che
potevano essere considerati gli elevati profitti, la Confindustria replicò
che erano stati compiuti molti investimenti di ristrutturazione interna alle
imprese proprio per accrescere la produttività, considerati i forti limiti
alla libertà di licenziare; in tal modo, riconosceva valido il mio
argomento. In breve: l'estrema difficoltà di licenziare va male poiché
blocca la crescita dell'occupazione e favorisce i lavoratori pelandroni; ma
non va bene neppure la piena libertà di licenziare: anche qui, com'è la
regola in economia, c'è un problema di optimum. Ritengo che oggi nel nostro
paese, dopo le innovazioni nel mercato del lavoro introdotte negli ultimi
anni, siamo molto vicini all'optimum. Conviene invece riconsiderare la
composizione di tali innovazioni: alcune sono da estendere, altre da
ridurre; il problema sta nelle condizioni e nei limiti dei contratti di tipo
nuovo: è da respingere, in quanto fonte di abusi e di sprechi, l'assenza di
limiti. In ogni modo negli ultimi anni lo stesso livello dell'occupazione ha
mostrato segni di ripresa, anche se nell'anno in corso, a causa della
recessione internazionale, è difficile fare previsioni ottimistiche, come
dirò fra breve.
Ho parlato solo degli aspetti economici della questione. Ma solo i ciechi
possono non vedere che la battaglia avviata dalla Confindustria è in primo
luogo politica: l'obiettivo è di colpire molto duramente i sindacati. Gl'
industriali possono porsi l'obiettivo di mettere in ginocchio i sindacati
con qualche probabilità di successo quando la congiuntura economica è
positiva; ma se è negativa possono porselo? È assai difficile, poiché
dovrebbero combattere su due fronti: i mercati di sbocco e il mercato del
lavoro.
Che sia in atto una recessione economica internazionale è riconosciuto da
tutte le persone serie, e non da ora; per ovvie ragioni fanno eccezione
Berlusconi e il suo economista Tremonti, che nella finanziaria prevedeva un
aumento del 3,1% - la previsione fu subito ridimensionata ed ora non
raggiunge la metà di quella cifra. La questione è: che tipo di recessione ci
troviamo di fronte? Facilmente superabile ovvero lunga e grave? Per
elaborare un'adeguata strategia del sindacato la Cgil potrebbe promuovere un
seminario inteso ad approfondire la questione - gli economisti seri,
competenti e pronti a collaborare non mancano.
Fra coloro che studiano la congiuntura molti propendono per l'ipotesi
relativamente ottimistica, altri - pochi - per la seconda. Tuttavia, in
economia, a differenza dell'astronomia, previsioni precise non sono
possibili, se non altro perché alcune variabili dipendono da decisioni non
predeterminabili; è possibile formulare solo ipotesi previsive o giudizi di
probabilità, indicando le basi su cui i giudizi vengono espressi. Gli
economisti che pensano ad una recessione modesta e di breve durata non
specificano su quali basi formulano la loro ipotesi. Gli economisti
relativamente pessimisti indicano invece le ragioni delle loro gravi
preoccupazioni. Fra questi economisti troviamo Nicola Cacace, che nell'Unità
del 17 gennaio ha pubblicato un interessante articolo sulla crisi mondiale,
l'economista inglese Wynne Godley, che nel luglio 2001 aveva pubblicato un'
indagine su questo tema e che è tornato a trattarlo in un breve saggio che
sta per uscire nella Quarterly Review della Banca Nazionale del Lavoro; c'è
Paul Krugman, che espone le sue preoccupazioni in un capitolo del suo nuovo
libro «L'economia della paura»; ci sono anch'io; ho accennato alla questione
in un articolo su Repubblica del 28 luglio. Le ragioni profonde delle mie
preoccupazioni sono però quelle che esponevo vent'anni fa nel libro «Le
forze dello sviluppo e del declino» e che riguardavano due fenomeni: lo
spostamento delle quote distributive a favore dei ricchi - cinque o sei
punti in pochi anni - e l'enorme indebitamento, delle famiglie e delle
imprese. Io ponevo in risalto che alla crescita abnorme dei profitti
corrispondeva una insufficienza di sbocchi per gl'investimenti produttivi;
una parte crescente dei profitti veniva allora investita in immobili e in
borsa (come negli ani scorsi è avvenuto in Giappone); la speculazione,
sostenuta dalle banche, a un certo punto è crollata e ciò ha aperto la porta
alla grande depressione.
In effetti Cacace e Godley fanno riferimento a entrambi i fenomeni,
spostamento delle quote distributive e debito; ma mentre Godley concentra l'
attenzione sul debito - sia quello delle imprese e delle famiglie sia quello
estero - Cacace mette in particolare risalto lo spostamento delle quote
distribuite, che a suo parere viene promosso soprattutto da interventi
fiscali. Ciò è accaduto anche oggi negli Stati Uniti e, più recentemente, in
Italia. Bisogna notare che, come negli anni Venti e negli ultimi dieci anni
negli Stati Uniti, di recente in Italia la parola d'ordine è «enrichez
vous!»: l'aspetto paradossale è che i meno abbienti non sembra che abbiano
molte obiezioni a questa tendenza, o moda; sembra che i poveri non detestino
affatto i ricchi ed anzi li ammirino,affascinati dall'idea di diventare
ricchi anche loro; solo così, io credo, si può spiegare come mai le
politiche fiscali a favore dei ricchi non hanno trovato ostacoli politici di
rilievo in nessun partito. Forse il giudizio sulla distribuzione del
reddito, più che da astratti e immutabili criteri etici di equità, dipende
molto dalle aspettative della gente e, in concreto, dal funzionamento dell'
economia. Di fronte al pericolo di una nuova grande depressione e di una
replica della recente esperienza giapponese Krugman (in termini vaghi) e
Godley (in termini più precisi) prospettano azioni «non ortodosse» da
esaminare sul piano internazionale. Il problema richiede la massima
considerazione.

tratto da "L'Unità", 20 gennaio 2002
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