<<<- |
. . . . . . . . . . . . . |
Al vicolo cieco
Qualche
tempo addietro scrissi alcune riflessioni sul carcere, sostenendo che
esso è sempre più costretto a vivere del suo, è sempre più
“obbligato” a mancare alle auspicate attese della collettività,
nell’impossibilità quindi di partorire giustizia e speranza. Scrissi
dei tanti suicidi e dei
troppi silenzi. Ricordo
che fui accusato di falsare i dati, di stravolgere la realtà, di
mistificare la verità. Fui
indicato come uno scrittore che non sapeva dare conto della propria
scrittura, cioè del valore delle parole. Con
sorpresa, alcuni giorni dopo, un grande giornale pubblicò un servizio
che confermava le mie tesi, i suicidi in carcere sono effettivamente
aumentati drammaticamente. Soprattutto,
ribadisco io, si è deteriorata quella solidarietà e partecipazione
costruttiva tra il dentro e il fuori.
Quel
collante-riabilitante a fatica edificato negli ultimi anni. Solidarietà
che non è un sentimento pietistico né parente lontana di
un’assistenzialismo passivo, bensì è un preciso interesse
collettivo, affinché alla giusta condanna del colpevole si affianchi
quella prevenzione-accompagnamento che consente di combattere la
recidiva dilagante. Nel
silenzio e nell’indifferenza colpevole, spesso mi sono chiesto
qual’è il volto nascosto dietro le righe di una notizia. Qual’è
il volto e la storia dell’ultimo uomo scivolato in “SCACCO
MATTO” in un carcere. Quanto
quest’ennesimo suicidio risarcisce
in termini di umanità, al di là della mera notizia? Per
quanto concerne il carcere penso che non tutto ciò che accade
nell’ambiente penitenziario è arbitrario, illegale, ingiusto, forse
è solo il risultato del nulla prodotto, appunto, per mancanza di un
preciso interesse collettivo o meglio della sua comprensione
sensibile. Perciò
a nulla vale il nuovo Ordinamento Penitenziario, il rafforzamento
degli Agenti di Polizia Penitenziaria, e di contro la negazione di
ogni pietà attraverso la concessione di un indulto o di una amnistia. Se
non interverrà un vero ripensamento-intervento
culturale, c’è il rischio di precipitare all’indietro: in
una proiezione dell’ombra che non accetta né consente
spazi di ravvedimento. Non
è il caso di avvitarsi
nel pessimismo, di
arrendersi non se ne parla, perché come ha detto Don Franco Tassone
Responsabile della Comunità Casa del Giovane di Pavia: “occorre
vincere l’ultima battaglia”. Infatti
sono convinto che anche
fra le mura di un carcere ci sono uomini consapevoli dell’esistenza
di leggi morali, oltre che scritte. Ci
sono uomini che possono riconoscere le leggi dell’armonia sociale,
quelle leggi che ad un
certo punto si è pensato di poter dimenticare. Però
penso anche a quell’uomo, l’ultimo della serie che s’è
impiccato. A
quel volto, a quel cappio al collo, e intravedo l’importanza di
demolire i ghetti mentali, di per sè espressione di quello spirito
umano… spesso incatenato. Penso
allora a questa vita, che è tutta da vivere sempre e comunque,
proprio perché è un ‘avventura incerta, e incerta significa che si
patisce, si soffre, si cade, e si arriva alla coscienza della poca
conoscenza, dei tanti motivi che sfuggono. Non
conosco il volto strozzato in quel carcere, ma comprendo la difficoltà
dell’accettazione del dolore, il che in una parola
sottenderebbe assenza di saggezza. So
bene quant’è difficile
agguantarne l’orma, e quanto a volte ciò sembri lontano, sebbene
così straordinariamente vicino, al punto da non vederne neppure
l’ombra. In
un carcere è difficile
perforare quella superficialità che è corazza a difesa, il “muro
di niente” contro cui cozziamo e moriamo. E’
davvero difficile raggiungere quella falda profonda a nome interiorità,
navigando tra anse e anfratti, scogli e derive per arrivare a
quell’essenza che può dirci di cosa siamo capaci, e addirittura
svelarci il significato
da dare alla vita. Qualcuno
ben più illuminato di me ha detto che, forse, il significato della
vita, propriamente, non va cercato: dobbiamo solo aiutarlo a rivelarsi e quindi
accoglierlo. Fuggire
da noi stessi, dalla realtà stretta di una cella, annullando il
significato della propria esistenza, non giustifica la colpa, né le
ragioni che ci inducono a farla finita. Tanto
meno indurrà la società a chiedersi se questo ultimo gesto è
lecito, e se è morale. Ancor
meno spingerà a domandarsi se per caso Dio non sia morto proprio
dentro la cella di un carcere, ipocritamente descritto come
un luogo di speranza, mentre permane un luogo di morte. Forse
sarebbe il caso di ripensare davvero alla possibilità di un carcere a
misura di uomo, anche dell’ultimo degli uomini. Di come
il detenuto, oltre alla propria condanna, sconti una ulteriore
sanzione, quella di morire a tempo determinato. Perché
in carcere, oltre alle ben note etichette, stigmatizzazioni e
umiliazioni, va di moda la flessibilità,
non quella del lavoro né della pena: umana, dignitosa, condivisa. Si
tratta di flessibilità nel risolvere i problemi endemici che
soffocano l’ Amministrazione Penitenziaria, la quale pare muoversi
come la nostra evoluta società, che cresce, si educa, si realizza
pari passo con l’imbarbarimento dei sentimenti e dei valori,
scambiati per medaglie e successi da conseguire a tutti i costi. Io sono
un detenuto, lo sono da trent’anni. Scrivo,
leggo, lavoro, ascolto e penso, ho gratitudine sincera per chi mi ha
aiutato ad essere ciò che sono oggi, sono consapevole delle difficoltà
in cui vive il carcere, e ancor di più quelle in cui sopravvive
l’uomo detenuto. Sono
conscio che le utopie, la pietistica, fanno solo male a entrambi. E’
urgente smetterla con le solite frasi fatte, luoghi comuni, e fredde
didascalie. In
carcere non si muore solamente per le strutture vecchie e malandate, né
per l’assenza cronica di Operatori.
In
galera ci si perde per sempre, perché è un luogo
separato davvero, da una società che corre
all’impazzata al supermercato delle suggestioni, degli ideali
venduti a buon prezzo, della fede che non è amore che libera, ma
fatica di pochi momenti. In
carcere è morto un altro uomo? I mass-media hanno sparato a zero sul
sistema, hanno detto che si è suicidato, per l’invivibilità della
prigione, per il peso del proprio reato, per la solitudine
imposta….. Ma ecco
che le parole assumono la cantilena di un nuovo e altrettanto
inaccettabile epitaffio, perché anche negli Istituti
di più recente costruzione,
dove ci sono pochi detenuti, più operatori, e spazi di
vivibilità umana in abbondanza, un altro detenuto si è tolto la vita. Non
c’è bisogno di richiamare per forza una fratellanza allargata, di
ripetere “mio Dio…”, penso piuttosto che occorre ritornare a una
coerenza
che non è spendibile con le sole parole. Una
coerenza che riporta al centro l’essere
umano, con l’attenzione vera per chi subisce il
dolore dell’offesa tragica, e con l’attenzione sensibile che non
è accudente, né giustificante, ma un preciso interesse collettivo,
affinché l’uomo possa migliorare e trasformarsi. Bisogna
bandire le ciance, e chiamare per nome le mancanze, le assenze, gli
incitamenti che inducono a non pensare a chi cade, ma spronano a
seguire chi ben cammina…. poco
importa se calpestando chi arranca. Eppure
non tutto viene per nuocere, infatti questa epidemia di suicidi e di
numeri a scalare forse risolveranno il problema asfissiante del
sovraffollamento, e, perché no, anche quello della spesa pubblica: e
per mantenerne uno in meno, e per non costruire altri
penitenziari………. pardon, “molok” nelle nebbie transilvane. Vincenzo
Andraous Carcere di
Pavia e
tutor
educatore
_________________________________________________________________ |