BABYMEN
Gli
uomini ritornano a frequentare l’agorà lasciata per troppo tempo in
solitudine, ritrovando il senso delle somme, delle detrazioni da
quantificare con la capacità prospettica
per un futuro non più lasciato alle solite deleghe in bianco.
Sono tempi questi, in cui chi non dà il proprio contributo, rischia
di rimanere al palo ad aspettare un tram che difficilmente si fermerà
a raccogliere i ritardatari.
Soprattutto sono tempi adatti a smentire
le teorie dell’ eterno ritorno, tempi che debbono stabilire
le differenze tra passato, presente e futuro, differenze che non
possono essere lasciate al caso, alle parole lanciate e rincorse, agli
slogans ideologici ridondanti di bene comune.
Sono tempi che non consentono cadute all’indietro, nel vuoto di
memoria, di amnesie culturali
e generazionali.
Rivoluzione e brigate rosse, risoluzioni e comunicati, spari e
cadaveri. Postmodernità e vecchi merletti, niente di nuovo
all’orizzonte, se non il rinculo di un inverso diritto.
Tanti anni fa, esisteva il ruggito proletario che mieteva vittime e
speranze all’insegna di un ipnotismo collettivo, si, delirante, ma
anche condiviso dalle masse più influenzabili, perché lacerate da
aspettative disattese. Un brigatismo forgiato nelle scuole, nelle
fabbriche, nelle periferie dimenticate.
Persino nelle celle di un carcere, si esorcizzava la paura della
sconfitta, dubitosa all’inizio, più certa nel corso della
battaglia.
Anche nella liberta perduta, l’assolutismo ottuso, era vinto
nell’alcol delle parole, degli slogans inebetiti e inebetenti, nei
tanti e troppi volti inchiodati alle sbarre delle finestre, in attesa
di una liberazione che non sarebbe mai avvenuta.
Era l’utopia a fare da conduttrice ai sentimenti, a fare da maschera
alle proprie inadeguatezze.
Questi tempi odierni, sono diversi, non solo sono cambiate le
condizioni per gli inarrestabili
mutamenti intervenuti, soprattutto sono cambiati gli uomini, le
persone, le generazioni.
Sarà anacronistico e fors’anche impudente il pensiero che mi
assale, ma queste nuove brigate rosse, questi nuovi avamposti del
ferro e del fuoco, fanno intravedere una simbiosi scombinata di ben
altra realtà.
Si è parlato molto delle babygang, di come fanno o meglio pensano di
fare collettivo, di come recintano un’area dove tutto può essere
condiviso. Giovani per-bene perché finanziariamente approvvigionati,
giovani con poche monete nelle tasche, ma tutti disagiati, perchè
senza idee, sprovvisti di tecniche dialettiche politiche, fin’anche
di estremismi
pseudo-solidali.
Chi oggi si presenta sul palcoscenico nazionale, è qualcuno che ha
perso il suo tempo, che veste abiti mentali vetusti e tarlati da un
decennio di vita a vivere, e non di vita da combattere a tutti i
costi. E’ qualcuno, sì,
ben fornito di cultura, di nozioni tecniche economiche,
ma
solo in apparenza è un conduttore autorevole, perché
nonostante il suo carico di terrore, di metriche logorroiche, tradisce
la propria identità di educatore di anime delittuosamente ingenue, di
anime purtroppo già derelitte e sconfitte.
E’ qualcuno che tradisce una identità non libera né liberante, che
non possiede edificio da ricostruire sulle ceneri del passato, proprio
perché chi rifiuta le scelte, tutte, in blocco, non conosce libertà,
né può essersi mai sentito un uomo libero.
Allora e con sorpresa non ci sono solamente le babygang a scorrazzare
sulle strade, c’è un nuovo soggetto che irrompe nella nostra società,
i babymen, sparuto gruppo dell’ultima fila, ospiti fissi dei rifugi
del comodo silenzio, interrotto dalla frazione di uno sparo, attori
inconsapevoli
della propria patologia di Peter Pan, confermata nelle miserie
esistenziali di uomini infantilizzati dal disimpegno, dal rifiuto del
dialogo, del confronto.
Uomini sempre più soli, destinati al macero, come le parole rubate
sui libri di storia, distorte fino a farle diventare replicanti di se
stesse, in un remake degli anni di piombo, che nessuno vorrà
rivedere.
Mai più.
Vincenzo
Andraous
Carcere di Pavia e
tutor della Comunità
Casa
del Giovane di Pavia
Marzo 2002