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“ Don Giuseppe se ne va “

“ La mano destra di Dio “. L’ho sempre chiamato così, e non credo di aver mai esagerato. Da qualche tempo non posso più incontrarlo quotidianamente, perché sono stato trasferito nel carcere  di Pavia, mentre lui è rimasto a fare il Cappellano in quel di Voghera. Ciò ha significato perdere molto in termini di coscienza critica e di silenzi pieni, da vivere a viso aperto.

Fortunatamente lo posso sentire quando sono in permesso, infatti è nostra consuetudine chiamarci al telefono ogni sera prima di addormentarci; una sorta di augurio per i giorni a venire.

Ho saputo che ad aprile cesserà la sua attività. Ho stentato a crederci, perché ho sempre avuto la netta sensazione di avere a che  fare con una costante inarrestabile dagli anni e dagli eventi. Tant’è che se al concetto di eternità corrispondesse un “ altro Uomo “, ebbene Don Giuseppe ne sarebbe il mito.

Don Giuseppe se ne va, e sarà un’assenza che si farà sentire, che rimarcherà tutte quelle differenze finora colmate dal suo amore. Differenze e diastasi  esistenziali che fanno intendere il carcere un inutile contenitore, così chiamato e peggio “sentito”, per il numero dei detenuti accatastati, e non per la molteplicità dei rapporti nati, mantenuti e cresciuti.

Quell’uomo dall’incedere lento, è stato il collante per tenere insieme componenti culturalmente diverse, nonché per accorciare i metri di filo spinato che dividevano un “ dentro  e un fuori” complementari per  ritrovare un senso, e un senso a dare.

Don Giuseppe non è stato solo intermediario di “altro “, in questa terra di nessuno. Egli è riuscito a frapporsi tra il vertice ( gli Operatori Penitenziari ) e la base ( i Detenuti ), come autorevole figura di riferimento e approdo sicuro per chiunque. Senza distinzioni.

Io c’ero a Voghera, ci sono stato per più di undici anni, l’ho visto all’opera, l’ho seguito passo dopo passo, ho imparato molte delle cose che oggi danno valore alla mia vita e mi consentono di confrontarmi con gli altri.

Non è facile per un prete affondare le braccia nel male, prendere atto del meccanismo perverso che si alimenta tra queste mura insormontabili.

Non è facile scegliere di stare tra l’incudine e il martello di barriere fisiche e psicologiche all’intorno.

Ma lui è un grande uomo, non solo per la fede che traspare in ogni suo gesto, ma anche perché possiede la forza del vero leader: quella dinamica intellettuale e spirituale con la quale mediare tra tutti e con tutti, nell’intento di fare convergere i poli opposti per un bene comune.

Lo ammiro per l’ostinata  intelligenza, per la tenacia con cui ribadisce la necessità del rispetto delle regole per una civile convivenza, sottolineando che più di ogni altra cosa conta, l’essere umano quale unica entità persino all’interno di una prigione, affinchè ogni futura azione, nei valori introiettati, possa accompagnarsi a una intuizione, senza la quale non è possibile raggiungere alcuna meta.

Quando penso a Don Giuseppe, ritorno con l’anima colma di gratitudine al Collettivo Verde del carcere di Voghera, un’esperienza esaltante e unica nel suo genere: uno strumento collettivo di cambiamento di mentalità, per trasformare il detenuto  in agente sociale, in un soggetto portatore di idee e di  contributi per accorciare le distanze, soprattutto per tentare di riparare alle tante lacerazioni inferte e vissute.

Egli non ha mai voluto rivendicarne la paternità, ma il Collettivo Verde non l’ho creato io, non siamo stati noi detenuti a disegnarne il progetto e l’organizzazione, bensì fu lui a condurci per mano alla scoperta  di coordinate umane per ritrovarci e incontrare  gli altri.

Quell’esperienza irripetibile è stata una sua creatura, egli è stato “ l’anima del gruppo “: l’insieme del tutto che è diventato assai di più.

Don Giuseppe e la sua partecipazione attiva a un progetto; quante volte con pazienza mi è venuto vicino, accostando la sua mano alla mia per frenare il pennello con cui verniciavo indistintamente tutte le cose.

Oggi più di ieri ritornano alla mente le sue raccomandazioni a uscire dai comodi silenzi imposti da questa prigione.

Le sue spinte a uscire da quell’autismo, scelto furbescamente  a disimpegno e  optare invece  per una ricerca di volumi di umanità nel rispetto degli altri: attraverso passaggi esistenziali che permettano un’autocritica leale e parallelamente richiedendo lo stesso impegno all’Istituzione entro cui si vive. Ben sapendo, che le scelte, quelle importanti comportano sofferenze.

Debbo tanto a quell’uomo, alla sua capacità di elevare la mente per  interrogarsi  sui fini, i motivi, i valori, procedendo oltre il primo strato, dove si animano e si divaricano le convinzioni.

Carissimo Don Giuseppe, questa volta voglio dedicarti un pensiero non mio, ma che ben disegna la tua vita spesa e scommessa per gli altri: le leggi possono comandarci la tolleranza, non la fratellanza.

E tu mi sei fratello per sempre.

 

 

7-4-2000 Pavia

 

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