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EREDITA’
SCARLATTE Sono in questa
comunità “Casa del Giovane“ da tempo ormai, e mi accorgo che c’è
sempre qualcosa da imparare, da rielaborare e tenere ben a mente.
Anche quando i percorsi, i metodi, le dinamiche sono tutte al loro
posto, c’è un lampo che attraversa il nostro passo, e ci obbliga a
fermarci per riflettere. Molti sono i minori
accolti in queste strutture, e molti sono coloro che accompagnano i
loro passi, con attenzione e capacità intuitive, che a volte
“servono“ più delle competenze acquisite con lo studio delle
tecniche educative. Certo è
difficile comprendere il disagio che li avvolge, ancor più
esplicare metodi educativi risolutivi, perché ogni persona è un
mondo a sé, allora intervenire diventa “scienza della mente e del
cuore”., e non sempre è facile riuscire dove la vita non è stata
ancora vissuta, ma è stata incredibilmente lacerata fin dal suo
sorgere. Le storie che
incontro sono pezzi di vita che sbarrano la strada, bussano alla porta
della ragione per tentare di sfiorare finalmente un senso, quel senso
che i giovanissimi prendono a calci, per reazione all’indifferenza o
all’incapacità dell’altro di farsi carico delle sofferenze che
sono state loro imposte, in famiglia, nella scuola, da un mercato che
disconosce il povero e annichilisce il ricco. E’ un’umanità
adolescenziale che cresce piagata per non avere avuto possibilità di
scelta, se non quella di fuggire lontano da un reale sotto vuoto
spinto. La nostra è una
società che etichetta, che ingabbia, che modella a proprio uso e
consumo, per poi gettare via l’involucro usato o avariato. E’ una
società che allunga il passo, che ha memoria corta, una società che
recita, sì, il Padre Nostro, ma lo fa meccanicamente per non sentire
l’importanza di quelle parole, né gli impegni assunti con quella
preghiera. Baby
gang-branco-baby assassini- è roba che riguarda gli altri, perché
“tanto ai miei figli non accadrà mai”.
Qualcuno ha detto
che, finchè i bambini non saranno intesi come figli di tutti, essi
saranno destinati a scontrarsi, e soccombere, con gli interrogativi di
questa esistenza. Forse non è
neppure il caso di polemizzare sulle varianti che generano disagio,
per intenderci, sulla povertà che
alimenta il conflitto, sui distacchi perpetrati in famiglia,
sull’uso e abuso dell’agio. Lutrec è un
ragazzo che non somiglia per niente ad un uomo, è un giovanissimo con
gli occhi di cerbiatto. Non è neppure un bambino, è un adolescente
che non cede metri al tempo, mentre rimane fermo ad aspettare. Ricordo quando
l’ho visto arrivare in comunità: un uragano, un tir senza comandi,
una valanga che tutto travolge e sconvolge. Impotenti di fronte
a tanto furore. A ben guardare,
Lutrec è davvero fin troppo giovane per essere così reattivo e
diretto nello scontro fisico, quanto evasivo nel pagare pedaggio al
gioco delle verità. Nei primi tempi non
ha fatto altro che provocare, offendere, cercare guai con i coetanei,
con gli adulti, persino con Dio. In che modo seguire
e accompagnare un piccolo Attila, un distruttore di pazienze e
speranze? Come evitare di reagire allo stesso modo, o peggio, guardare
da un’altra parte? Ma in Lutrec non
c’è un disturbo della personalità, né una patologia esistenziale,
c’è il rischio
della sconfitta, per non esser stati capaci di intervenire con scienza
e coscienza. Dietro la maschera
del duro c’è un’intelligenza viva, lucida e creativa. Dietro quella
maschera indossata a difesa ed offesa, c’è il peso delle tragedie
vissute, del dolore incamerato e mai elaborato, delle sofferenze
accatastate e mai del tutto superate. Lutrec non conosce
ancora la propria storia, la propria dimensione, il proprio spazio e
tempo, rifiuta i ruoli all’intorno, porta addosso un’eredità mai
voluta né condivisa. Non ha deficit
cognitivi, né turbe emotive strutturali, alla sua età, è
stravagante per monopolizzare l’attenzione, ricorda ma non accetta
le assenze eterne, né i rifiuti delle presenza rimaste. Lutrec è un
respiro ansioso, che sente la minaccia del rifiuto e dell’abbandono. Osservandolo, ho
pensato quanto siamo tutti dottorandi di filosofie comportamentali
astratte, a tal punto da ingabbiarlo in una serie di mancanze, che
hanno prodotto l’otturazione
delle intercapedini ove stanno in embrione i mondi futuri. Riflettendo con
parsimonia di giustificazioni, ma con maggiore onestà intellettuale,
si potrebbe sostenere che le negatività messe in atto da Lutrec non
sono altro che la esplicitazione di una superficialità verso la
propria persona e i propri sentimenti: frutto di un modello
genitoriale per lo meno indeguato. Ecco allora la sua
paura, la sua sfiducia in se stesso e negli altri, la sua convinzione
di non valere qualcosa, né di poter fare cose significative per il
proprio futuro. E questa percezione
genera diffidenza, disimpegno, alimenta solo l’attenzione al
“tutto e subito, qui e ora “. Mi rendo conto che
esprimo sensazioni dettate dalla mia vista, dal mio udito, mancanti di
una competenza scientifica, ma penso che si diventa responsabili se e
quando si esercitano responsabilità reali, seppure appropriate
all’età. Non certamente
attraverso una conduzione educativa assistenziale, fatta di tante cose
date gratis, e di un po’ di regole ( sì, necessarie, ma che possono
generare dipendenza, e quindi assuefazione al “ tanto mi dà
tanto”, perché in questa ottica verrebbe a mancare la vera
responsabilizzazione, quella basata sulla fiducia, sulla tecnica
dialettica che non consente agli interlocutori di barare. Don Enzo Boschetti,
fondatore della Casa del Giovane, ci ha insegnato che “si educa e
rieduca solo con l’amore e la fiducia…”: questo è il solo modo
per andare incontro alle solitudini che devastano il mondo giovanile,
alle incapacità di trasformare relazioni interpersonali conflittuali,
in relazioni vere, che servano ad elevare anima e cervello, quindi a
costruire nuove convivenze e comunità. Vincenzo
Andraous Carcere
di Pavia e
tutor comunità Casa del Giovane
di Pavia Febbraio
2002
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