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ERGASTOLO "I
ricordi sono un plotone di esecuzione in linea di tiro”. Ergastolo,
"fine pena mai", il dazio da pagare per il male fatto agli
altri, una pena che affligge, punisce e separa dalla collettività.
Una pena che sancisce la fine di un tempo che non passa mai, un tempo
che non esiste. Che non ti assolve. Ergastolo,
secoli di dolore racchiusi in anni a venire già chiusi e conclusi in
se stessi, anni di introspezione, parossismo di un'esistenza che non
c'é più, oltre le tante e troppe parole dette in fretta proprio per
non dire nulla. Ergastolo;
sbarre appese alla memoria per ricordare; 30 anni di carcere scontato
non sono un'astrazione né una combine della mente, decenni su
decenni di ferro sbattuto sui rimorsi che lasciano un segno, un'apnea
che restringe i polmoni e costringe l'uomo a straripare in universi
sconosciuti. Ora dopo ora, un mondo fatto di domani che non ci sono, una negazione che rinvia alla morte di ogni umanità, creatività e fantasia. Vorrei
esser capace di esprimere ciò che ho dentro, ciò che mi porto
dentro, nella ricerca di una dimensione che non possa coincidere
solamente con la fisicità della segregazione, o con un modello
culturale basato sull'esclusione e su una condanna che diviene
alterazione del tempo e dello spazio, persino dei sentimenti. In
questo mio " fine pena mai", di tante altre storie blindate
e anonime, vissute in maniera drammatica, giorno dopo giorno, momento
dopo momento, il passato ricompone la sua trama e passato – presente
- futuro, sono lì, ben allineati nell’attimo fuggente e immoibile,
senza domani. Sono
in carcere da 28 anni e la scena su questo palcoscenico sotterraneo di
carne e sangue, di palpiti e slanci in avanti, repressi, é lo
specchio di un qualcosa a cui nessuno intende guardare. In
questa imposizione di un tempo vuoto, lontano, sconosciuto, definito
tempo perché convenzionalmente fa comodo così. Per
mio conto e, un gradino al di sotto di chiunque altro, ho ritrovato
brandelli di me stesso scomparsi, e come nelle foreste pluviali
intagliano gli alberi per raccogliere in un secchio la gomma, io non
faccio altro che raccogliere nelle mie pagine i miei tagli. Nonostante
il carcere e questa pena che scorre circolarmente - in un inseguimento
a ritroso ed eterno - imprimo alle mie orme il senso di una capacità
di partecipazione, di accoglienza, in un sentire che sento stare in
noi, perché é autentico e non perché si é disperati. Per sfuggire
gli attimi in cui ci si sente estranei tra tanti, alienati a tal punto
da non capire più nulla, da non sentire più niente, da non
riconoscere chi siamo e chi ci sta intorno, divenendo corpi morti. A
volte una cella, uno spazio chiuso fa strani effetti, ti riduce,
restringe e limita, ti spegne. Ma a fronte di questa morte annunciata,
della galera cosi com'é, c'é questo sorprendente incontro con gli
altri che ci attende, c'é lo stupore di ritrovarsi al cospetto
dell'universo interiore che é in noi, il quale ci conduce sul sottile
confine che delimita la scelta di rinnovarsi, di cambiare, ricorrendo
alle proprie forze segrete, alle proprie energie spirituali, per
tentare di essere un uomo libero nonostante le catene ai polsi L'ergastolo che sto scontando da tanti secoli é dentro di me, lo riconosco, é un mio compagno di viaggio, é la parte oscura di me, e con le mani in avanti per tentare un allungo oltre la razionalità della mia colpa, divenuta un macigno che pesa sulla coscienza, intravedo sequenze che mi scorrono sulla pelle, incidendo a sangue ciò che sono stato, ciò che é stato. Ciò che oggi sono. Ho
avuto tempo e silenzi assordanti per pensare ai miei fantasmi, alle
mie tante morti tutte in fila per tre. Sono rimasto a lungo piegato su
questa morte civile, osservando il perimetro che mi circonda come a
una macchia incolore, una specie di schema freddo e sintetico: colpa-pena-punizione.
Uno spazio essenziale, spogliato di ogni riferimento, ove l'anima urla
davvero, persino quando rischia di non esser udita, perché soffocata
dalle sue stesse grida, imprecazioni, dal suo stesso sanguinare. Guardo
all'ergastolo che mi porto addosso, al suo interno non esiste
principio né fine, né prima né dopo, cioé alcun tempo. Né sopra né
sotto, cioé alcun spazio. Una dimensione di assoluto e di niente, di
vuoto e di pieno, di peccato e di disgregante follia. Eppure
esiste una linea di confine alla ragione, é questa cella con arredi
spogli, poveri, insignificanti, ma a ben guardare, nel lungo tempo a
camminare in ginocchio, divengono segni importanti, per accorciare la
distanza tra questa morte tramandata e la speranza dell'avvenire che
mi cresce dentro. Questa
condanna, così oscura, tetra, dura a tal punto da rasentare l'incubo,
fino a farti ammuffire più del tetto-cratere di questa prigione,
incontro e ritrovo un'umanità che infine vive. In
questa cella dapprima sconosciuta e nemica, ho capito che essa mi
appartiene ancor più della mia colpa che non arretra. Questo cubismo
astratto, che ho trasformato in un percorso corporale e spirituale,
questo recinto - lontananza siderale dall'essere - ho imparato ad
accettarlo come mio intorno, a colorarlo con il lavoro, la poesia, la
mediazione, i rapporti umani finalmente sbocciati, mantenuti e
cresciuti. Ho scavato con le dita rotte, mi sono inerpicato sulla
salita, sino a fare diventare questo "ergastolo" un tempio,
ove recuperare non solo nel trascendente della fede, che ogni
individuo professa, ma fors’anche e soprattutto su ciò che in
ciascuno incombe: la responsabilità di "ritrovare e ricostruire
se stesso". Ci
sono momenti in cui il panico mi assale, mi paralizza, mi terrorizza,
nel rendermi conto di come io abbia fatto diventare la condanna delle
condanne un "mito", nel tentativo di modificare questa
dimensione disumanizzante in un luogo ancor aperto ad alternative di
conoscenza e mutamento interiore. A
volte la follia, la perdita di memoria, é una scelta individuale per
non vedere, per non sentire; lo so bene io. Ecco che allora aprire gli
occhi e saperli poi abbassare, consapavole delle mie stanchezze e
lentezze, diviene un gesto, un comportamento e azione che superano di
gran lunga lo spauracchio di quel “mito” costruito a mia misura. Sono
passato per tante notti insonni, chiedendomi quando sarebbe giunto il
momento di " esistere" a fronte dei chiavistelli. Ossessionato
dalla tragedia che mi incombe, dalle Antigoni che non mi appartengono,
ho vagato per campi minati, aggrovigliato nel filo spinato, facendomi
male, in una sofferenza per lo più amministrata, imposta e comunque
mai partecipata. Mai vicina a un dolore "vissuto in due". Appoggiandomi
ai lampi di vita incendiati e dispersi ho camminato ancora, per capire
che importante "non é esserci" ma ciò che si é, ciò che
sono e devo essere, per reinventarmi una vita, un’occasione per
riparare in qualche modo a ciò
che é stato. Alle
mie spalle danzano gli anni vissuti con i pugni chiusi, tento di
fuoriuscire e sospingermi avanti, al di là della gabbia che mi
circonda, per testimoniare la
differenza dell'uomo di oggi dall'uomo della condanna, dall’uomo
della pena, proprio perché in questo presente la sola libertà che
conosco presuppone verità per i miei errori e amore per gli altri. Ergastolo
io lo sto scontando, nei miei nuovi impegni e nelle mie nuove
resposnabilità; sebbene sottovoce mi convinco che occorre affidarsi a
una pena che sia solo un tragitto di vita, e non una mera
sopravvivenza; una sofferenza fine a se stessa. Una pena che parta dalla dignità della persona, dalle sue capacità e risorse che, nel rispetto di una doverosa esigenza di giustizia della vittima, ricerca e scopre nuove occasioni di riscatto e riparazione. Vincenzo
Andraous carcere
di Pavia e tutor
Comunità Casa del Giovane di Pavia _________________________________________________________________ |