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E' un interesse collettivo
Quando si parla di carcere, si rischia di incorrere in esternazioni ideologiche, che sono il mezzo per infilare la scorciatoia più vicina, per non percorrere la strada faticosa a nome Giustizia e Umanità. Per
partorire davvero riforme, invece occorrono costruzioni mentali forse
difficili, non basta esprimere giudizi. Tutti
sappiamo che è più facile non guardare a quel che succede nei
meandri di un penitenziario. Altrettanto
sappiamo che è ancora meglio non interessarsi a quel che non succede
in una prigione. In
fin dei conti è più consono non accollarsi troppi mal di testa per
“persone“ che hanno sbagliato, e pagano giustamente pegno. Tranne
poi scandalizzarsi e farne un dramma di coscienza, quando molte di
queste persone, una volta ritornate in libertà, al termine della loro
pena, ricommettono gli identici reati , creando allarme sociale e
insicurezza. Allora
si auspica, inasprimento delle pene, carcere duro….. il capo reclino
negli strati più profondi, con l’unico risultato di nascondere la
verità, quella che fa male e ci indica come corresponsabili di
un’assenza che perpetua vittime e carnefici. L’impressione
che si ricava dal dibattito attuale sul carcere, è di una somma di
parole che non favorisce speranza. Come
se il carcere, per un imperativo categorico non scritto ma imponente,
dovesse rimanere uno spazio isolato, disgregato e disgregante,
annichilente a tal punto che nessuno deve interessarsene con impegno e
investimento appropriato. Come
se obbligatoriamente chi entra nel perimetro di
una prigione, debba uscirne svuotato di se stesso, e senza
prospettiva alcuna. Come
se trasformare il presente carcerario, ricercando un dialogo
possibile, che edifica il più piccolo degli approdi sicuri, a fronte
di uno sbandamento che ha prodotto conflittualità assidua, fosse una
utopia lacerante. Eppure,
se vogliamo che l’insicurezza e la criminalità diminuiscano,
dobbiamo riflettere tutti insieme, perché l’esperienza ci dice e
conferma che sulla personalità di ogni detenuto, di ogni uomo
ristretto, di ogni minore o adulto in prigione, gli effetti
sfavorevoli delle sanzioni privative della libertà personale,
superano di gran lunga qualsiasi portata positiva per la sua
risocializzazione. Per
superare lo scompenso, la diastasi tra punizione e recupero, occorre
ripristinare un clima di collaborazione e di partecipazione attiva. Forse
è il caso di prendere in considerazione il fatto che il reato, il
delitto, è anche una malattia sociale, e come tale, necessita più di
un risanamento che di punizione. Se
rapportiamo questo ragionamento alla funzione del carcere,
erroneamente ridotto a
fungere da mero luogo di
contenimento, e alla luce degli effetti prodotti: recidiva,
desocializzazione, deresponsabilizzazione, dobbiamo per forza fare
affidamento sull’idea di un carcere che serva davvero a qualcosa,
quanto meno a migliorare le persone costrette a trascorrervi parte
della loro vita. Come
uomo e come detenuto, negli obiettivi raggiunti, ho riconoscenza per
chi mi ha aiutato a rinascere, e senza alcuna polemica,
mi viene da pensare che una società dimentica il diritto
stesso, quando lascia il detenuto SOLO
a riconoscere le proprie colpe, e tradisce quel diritto quando
lo lascia SOLO nel suo impegno a superarle e rinnovarsi. Eppure
è proprio questo rinnovamento, questo impegno a superare il passato,
questa assunzione di responsabilità soggettiva, che impone al
detenuto, ma anche alla collettività un nuovo modo di “vivere il
carcere”. In
questa terra di nessuno, quale è il carcere, c’è davvero bisogno
di un incoraggiamento pedagogico, verso condotte socialmente
condivisibili, ma forse c’è soprattutto
urgenza che vengano attenuati alcuni meccanismi dissocianti di una
peculiare condizione carceraria, i quali ostacolano la prospettiva di
un valido avvenire e di una nuova esistenza sociale. Sono
solo parole? Oppure quanto fin qui detto conserva per intero il peso e
la comprensione di un vero e proprio interesse collettivo? Più
volte è stato sostenuto che ogni intuizione educativa,
responsabilizzante, fagocitante un cambio di mentalità all’interno
di una prigione, è sistematicamente resa monca, dal sovraffollamento,
dalla carenza di personale e di fondi. Più
volte alle parole si sono sommate altre parole, ma al fondo mai nulla
è rimasto, infatti a queste serie difficoltà, vanno aggiunte diverse
altre voci, tra cui il taglio del 13% dello stanziamento concesso agli
Istituti Penitenziari per
far fronte alle spese sanitarie. Addirittura
il taglio riguardante le retribuzioni per i lavori domestici svolti in
carcere è del 45%. Mi
ritornano in mente le parole di un Nietzsche trapassato, che forse
consapevolmente si confrontava con il proprio cavallo, e affermava:
Non mi piace la vostra Giustizia fredda!…… Dite,
dove si trova la Giustizia che è amore ed ha occhi per vedere? Inventatemi
dunque l’amore che porta su di se non solo tutte le pene, ma anche
tutte le colpe. Vincenzo
Andraous Carcere
di Pavia e tutor
Comunità Casa
del Giovane di Pavia Luglio
2002 _________________________________________________________________ |