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LA
MANO DI DIO In quella sorta di
terra di nessuno che è il carcere, Don Giuseppe è stato un movimento
lento, ma inarrestabile, soprattutto inalienabile, nonostante le
contorsioni perverse prodotte dai meccanismi spersonalizzanti che si
sprigionano da quel pianeta sconosciuto. Oggi, Don Giuseppe
ha dimesso gli abiti di Cappellano del carcere, non lo incontri più
nelle sezioni, a colloquio nei corridoi, nelle celle, oppure nei
passeggi cementati. Da qualche tempo è
a riposo, in una di quelle stanze confortevoli create per le persone
anziane. Sono andato a
fargli visita…e mi sono trovato spiazzato. Pensavo di avere
innanzi un uomo finalmente libero dalle pressanti e disperate
richieste di una umanità ristretta. Invece ho trovato
lui stesso “detenuto”, in un altro tipo di cella. I suoi passi sono
lenti, il corpo rimane fermo come il cielo impresso nell’acqua del
lago, eppure sotto quella consapevole ritirata, c’è la ribellione
di chi rifiuta di voltare le spalle. Sono entrato in
quella stanza, con lo stesso sentimento di bene, di quando varcavo
la soglia del suo ufficetto in prigione. L’identica gioia
mi accompagnava, ma incredibilmente differente era la condizione. I ruoli
completamente ribaltati, lui che sempre ha teso la mano all’ultimo,
ora è tra queste “quattro mura”. Io che per anni mi
sono sottratto agli altri, oltre che
a me stesso, ero libero di entrare ed uscire da quelle sbarre
invisibili. Ho ricordato
quell’uomo con le croci degli altri ben cucite addosso, tanto da
farle proprie. Ho rammentato
l’uomo e poi il Sacerdote; l’uomo con lo sguardo in alto, sebbene
tra l’incudine e il martello; dei vertici penitenziari distanti, dei
detenuti inchiodati alle loro colpe. Ho ritrovata
intatta la sua capacità di credere e sperare nell’uomo nuovo,
insieme agli antichi insegnamenti: “occorre riesaminare
continuamente il passato per approdare a un mutamento interiore che
costruisca civiltà nell’amore”. Patrimonio, questo,
di quella sua cristianità che non regala facili ammende, o percorsi
illusoriamente in discesa. In questa sua
cella, il paradosso che si consuma è di carne e sangue, mentre il
tempo si ferma. Rimangono le sue
parole che non sono mai di ieri, Parole di
Giustizia, anche per gli ultimi, in un carcere ancora troppo lontano
dalla parabola evangelica del figliol prodigo, ancora troppo a misura
( o peggio dismisura ) di una mentalità che considera il pagare una
regola che va onorata, ma disinteressandosi dell’assenza e dello
spirito della Costituzione, quindi dello stesso Vangelo. Mentre rimango ad
ascoltare l’Uomo, rivivo i giorni in cui il Papa ha messo insieme
come una Trinità: PACE-GIUSTIZIA-PERDONO. Persino
all’interno di una prigione, di una solitudine imposta, di uno
spazio angusto, non c’è solo l’eternità della penitenza, ma il
bisogno di un aiuto, la necessità di un recupero che riconduca alla
propria dignità tra gli uomini. Con questi pensieri
ho salutato Don Giuseppe, con la gratitudine di chi sta imparando che
Giustizia e Perdono vanno conquistati e meritati, nella fatica e negli
impegni assunti in tutti i giorni. In quelli che
rimangono nel tanto cammino ancora da fare insieme. Vincenzo Andraous Carcere di Pavia e tutor Comunità
Casa del Giovane di Pavia Marzo 2002 _________________________________________________________________ |