<<<- |
. . . . . . . . . . . . . |
LIBERARE LA LIBERTA' Mi
convinco sempre di più che una persona detenuta debba fare ricorso
alle proprie energie interiori per riuscire a vincersi e migliorarsi,
ma ciò “ nonostante il
carcere“, diventando a nostra volta soggetti sociali
attivi e non solamente "larve”, né tanto meno rassegnandoci a
essere “oggetti”. Questa
riflessione parte dalla constatazione che, nonostante la mia
condizione di prigioniero, mi ritengo comunque parte di un insieme, in
quanto: sono, vivo, miglioro, perché appunto parte di una ampia
collettività. Senza ciò io stesso non sarei più. In
questo tempo d’impegno nella comunità “Casa del Giovane”, ho
capito che è proprio dall'esperienza che nasce la necessità di
cercare ripetutamente dei chiarimenti. La
spinta a mettersi in
discussione, a rimettersi in gioco, per conoscere di più noi stessi e
gli altri, viene soprattutto dagli incontri e dal confronto che ne
deriva. So
bene di non avere titoli
nel mio carniere, ma confidando nelle parole dapprima di Don Enzo e
poi di Don Franco: “Affrontare
il cambiamento è una necessità, come affrontarlo è una sfida per i
comunitari e le comunità. Se la comunità è un sistema chiuso gestirà
i problemi del cambiamento e dell’aggiornamento tentando di
mantenere lo status quo ripiegandosi su stessa; se invece è un
sistema aperto diventa luogo di testimonianza”. Mi
sovviene un ulteriore convincimento. Il
grande problema sul
versante carcerario consiste nel favorire e costruire una cultura
nuova più consona allo spirito delle leggi e delle norme,
una cultura nuova che permetta anche a chi vive a contatto
diretto e quotidiano con il recluso, un modo nuovo di concepire e
mettere in pratica la propria professionalità e le proprie
responsabilità. Mi chiedo infatti se un carcere che risponde a
condizioni strettamente custodialistiche e prisonizzanti, non sia
nell'effetto antitetico allo spirito e alle attese della legge stessa. Altrettanto
bene so che è innanzitutto al detenuto che viene chiesto
doverosamente di essere all'altezza del servizio offerto ( e sarebbe
bene intenderlo come una conquista di coscienza e non solo come una
mera possibilità statuale ), ma questa prigione costantemente
costretta a vivere del suo, a rigenerarsi di una speranza
pressochè spenta, rafforza la separazione tra
il carcere e la società.
EPPURE IL CARCERE E’
SOCIETA’. Io
mi sento parte della società, da essa provengo e ad essa
intendo tornare, a fronte di decenni di carcere già scontato. Per cui
la società non può chiamarsi fuori, tanto meno considerare questo
perimetro un agglomerato o un corpo morto a lei estraneo, questo perché
lei stessa con i suoi squilibri, le sue ingiustizie e i disvalori, ne
partorisce le trasgressioni e le conseguenti devianze che comportano
quel sovraffollamento che tutti conosciamo. Perciò
se io ritorno nella società non può esserci nessuna separatezza,
estraneità, affinché la società stessa si senta esentata dal dover
fare i conti con questa realtà Allora
come può una società non sentirsi chiamata in causa, non avere la
consapevolezza che è suo preciso interesse occuparsi di ciò che
avviene dentro un carcere, perché, volenti o non volenti, esiste un
dopo e questo dopo positivo dipende da un durante solidale costruttivo
e non indifferente. Giugno
2001 Pavia _________________________________________________________________ |