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LA
PIETA’ DELLA GIUSTIZIA Sono i giorni della pietà del Santo Padre. Dell’indulto e dell’amnistia in antitesi a pena e colpa: equazione facile per un carcere che separa e allontana ogni possibilità di riparazione. Si
dissente ideologicamente sulla differenza
sostanziale dei due eventuali benefici, poco importa l’alto
messaggio del Papa e del problema a monte. Sono
d’accordo sulla necessità del debito da pagare per il male fatto,
altresì su una privazione della libertà che è certamente
“responsabilità acquisita”,
ma a qualcuno vorrei chiedere se per caso sa quanto gli anni di
prigione fanno sentire ancora viva una persona? Vorrei
domandare, a chi giudica e fa spallucce, se
ha consapevolezza di
un carcere che
spersonalizza e annienta l'umanità che comunque ognuno di noi
custodisce in sé? In
questi giorni di sacro e profano, ho compreso quanto la società sia
lontana dal conoscere e sapere cos'è il carcere e quali gli effetti
di una pena fine a se stessa. Ho
la sensazione che i films e i romanzi siano opzioni intellettuali
assai più coinvolgenti, perché meno responsabilizzanti di una realtà
che invece é sotto gli occhi di tutti. Una realtà carceraria ben
diversa da quella raccontata, una dimensione, sì, di colpa, ma anche
di ricerca di opportunità e occasioni per tentare una riparazione. Forse
potrebbe essere salutare e ragionevole che prima di esser giudicato,
il mondo carcerario fosse conosciuto attraverso una forma diretta (
questo non vuol dire che auguro la galera a qualcuno, intendo
un'azione sociale che guardi davvero al carcere tutti i giorni, che
controlli tutto ciò che all'interno accade o peggio non avviene).
Conosciuto per quello che nella sostanza é, o meglio tenta
disperatamente di non essere... permanendo nella sua solitudine e
costrizione a vivere e riprodursi del e nel suo. Gli uomini liberi,
con la loro logica del chi-sbaglia-paga- e del penitenziario ridotto a
contenitore raccoglitutto, non
tengono conto di una valutazione concreta del carcere; infatti prima o
poi tutti escono, ma quali persone usciranno? Tanti uomini bambini,
perché infantilizzati? Tanti uomini bomba, perché ancor più
desocializzati? Nonostante
questo pericolo e l'imperativo auspicato a risolvere-evolvere,
inspiegabilmente emerge una nuova sottocultura politica che nega un
vero ascolto e disattende il desiderio di conoscenza della società,
la quale, confusa e impaurita, non
intende farsi carico del carcere. Come
se il reinserimento del detenuto non riguardasse nessuno ( o solamente
l'Organizzazione Penitenziaria e chiaramente chi, in galera, è
costretto a sopravvivere ), perché questo agglomerato umano é
percepito come una strada di non ritorno. Questa
impermeabilità é presumibile che non possa coincidere con una
razionalizzazione dei problemi che ci investono tutti, per cui aumenta
l'assenza di volontà e di intenzione a comprendere il mondo ( non
solo del carcere ) in cui viviamo, privandoci della possibilità di
contribuire quanto meno a migliorarlo. Sociologia
carceraria? A me detenuto ( giustamente ) é chiesto di passare a una
nuova scala di valori, a un nuovo modo di pensare, di fare, di agire,
comunque tenendomi ancorato fino alle ginocchia nella privazione della
mia dignità, tenendomi agganciato ad alcuni meccanismi perversi che
creano regressione e non evoluzione. Con attori diversi, la stessa
cosa intravedo all'esterno. Se mi fermo un attimo a pensare, mi pare
di
intuire che la società esige dai suoi componenti - costitutivamente,
direi - sia comportamenti
buoni che opere di bene e a tal proposito vorrebbe educare e formare
nella sacralità di certi valori e modelli di riferimento. Scorgo
d'altro canto che i valori d'èlite, i valori cardine più apprezzati
di questa società sono e si rafforzano nell'efficienza, nel successo,
nel profitto della cultura della competizione dove non esiste merito o
possibilità per il secondo (accantonando l'altra cultura, quella
della cooperazione per chi non ha più gambe per correre o é malato
nell'anima). A
prima vista potrebbero essere valori eccelsi, prioritari per chi crede
nel progresso, ma scandagliando a fondo mi accorgo che da queste
prerogative discendono i segni e gli effetti che sconvolgono non solo
le generazioni giovani ( come furbescamente si analizza-grida per non
pagare il dazio di tale eredità ), ma anche quelle più mature:
dunque ne è coinvolta tutta la società. Qualcuno
ha detto: "il carcere riflette la società in cui viviamo".
ma la società non lo riconosce come una sua parte. In
questo stato di cose, nel mio piccolo e sottovoce divengo voce
protestataria; perché quand'anche vivessimo un momento di confusione,
di smarrimento e disorientamento, ritengo che il ragionamento della
separatezza e dell'isolamento sia il risultato di una ipocrisia
interessata a mascherare altre colpe ( che certamente non giustificano
le mie)...E dal momento che nessuno di noi è un alieno, ciò
consiglierebbe più moderazione su questa scissione. Voci
autorevoli si sforzano per indurre il sentire comune a riappropriarsi
di quella morale irrinunciabile che è la coscienza; che io sia
credente o meno, poco importa se per coscienza intendo il punto
principale per la mia azione morale, nel ritrovare e ricostruire me
stesso, nel rispetto di me stesso e degli altri, in forza di una
scelta intima, dettata dalla responsabilità di una persona di
sentirsi parte in causa, e parte che intende partecipare alla comune
umanità. Inciampando,
cadendo, rialzandomi, agisco perché conosco, agisco e intervengo,
perché credo e sento nei valori che mi sono formato, per cui non
esiste solamente il mio mondo, ma fors’anche quella solidarietà
attiva che comporta il mettersi nei panni degli altri, persino di chi
ha sbagliato. Ciò
nella necessità di un
ripensamento culturale che coinvolga tutti, nessuno escluso; anch'io
dal di dentro, anch'io ristretto devo assumere la mia parte e lavorare
insieme a tanti altri, in cerchi concentrici sempre più allargati,
sempre più coinvolgenti. Solidarietà
non significa restringere tutto ai buoni sentimenti, perché sebbene
apprezzabili risulterebbero sterili. La solidarietà che dal carcere
richiamiamo è la stessa che s'innalza silenziosa dalle periferie,
dalle città, dal mondo a cui dobbiamo dare un senso. Solidarietà
come ha inteso il Pontefice: nei
gesti concreti e atti vissuti, anzi convissuti con gli altri. 11-7-2000
Pavia _________________________________________________________________ |