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RIEDUCARE
NON SOLO A PAROLE Sui
giornali leggo interventi mirati sul carcere, parole espresse con
buona volontà da uomini pratici
di promozione umana. Lo
dico io che sono stato vissuto dal carcere, trapassato e segnato fino
a farmi sentire parte del suo sé. Perché
la galera ti respira a fondo rubandoti i giorni a venire. Questo
pianeta di cui poco si sa e meno ancora si pensa è un contenitore di
carne umana destinata a imputridire, tra l’indifferenza o il gaudio
dei più. Ho
pensato mille volte a questo carcere che alimenta un’esistenzialismo
umbratile, dubbioso, precario. Forse
occorre finalmente vivere-vivendo senza più lasciarsi respirare
passivamente, e tenacemente prendersi in braccio e stringere i denti,
senza più ostinati silenzi in cui rifugiarsi. Ma
come fare se il carcere attuale è davvero malato, se manca degli
strumenti per incidere e fare maturare le personalità latenti, se non
possiede un ideale che possa infine piegare a una proficua utilità la
pena? Nè è capace di partorire una speranza vera,
destrutturando-ristrutturando ciò che rimane dei brandelli di vita
ritrovati. Scrivo
queste righe senza presunzione di conoscere la strada maestra, ma
consapevole dell’esperienza che sto vivendo in prima persona. Infatti,
nonostante il carcere e gli anni trascorsi dietro le sbarre, oggi sono
qui nella comunità la “Casa del Giovane” di Don Franco Tassone,
successore dell’indimenticabile Don Enzo Boschetti ( che qui aleggia
dappertutto ). E qui, pur permanendo la mia condizione di detenuto, mi
è stato concesso di svolgere il ruolo di tutor.
Mi sento parte di questa nuova cultura dell’intendere e del sentire,
e sento vive le parole del fondatore di questa comunità, Don Enzo
Boschetti: “ Si educa, e si
rieduca, solo con la libertà e nell’amore, perché solo nella
libertà e nella fiducia reciproca costruita pazientemente e
tenacemente, si può costruire e rinnovare una personalità”. In
questo senso sono qui a imparare molto e a dare quanto è nelle mie
capacità. Il
carcere con i suoi molteplici contorcimenti, forse è addirittura
irrappresentabile se non lo si tocca con mano. Mi
piace quindi significare un tragitto diverso, un cammino, sì,
difficile, ma più vicino alle aspettative reali. Un tragitto che
consenta un effettivo reinserimento sociale a fronte di una
progettualità costruttiva che renda meno ostico il rientro nella
collettività. In
questa comunità, dove non sono più solo un ospite, ma parte
integrante, mi rendo conto della differenza nel modo di operare e di
affrontare una stessa esigenza “pedagogica”: il trattamento
personalizzato. Infatti
all’interno di una prigione, se è vero che l’Ordinamento
Penitenziario prescrive un trattamento personalizzato, è altrettanto
vero che, a causa dei problemi endemici all’Organizzazione
Penitenziaria, il tutto risulta piuttosto aleatorio. Qui,
nella “Casa del Giovane”, dove comunque esistono regole precise e
finalità ben concepite, e dove tutto si basa sull’amore e sul
rispetto reciproco, ognuno si sente parte del proprio progetto di
vita. Ciò perché non esiste assistenzialismo parassitario, ma
impegno e lavoro, fatica e sacrificio, per il raggiungimento di una
meta che consiste in un agire
comune per obiettivi comuni. In
carcere per i motivi più volte sottolineati - la scarsezza di
finanziamenti, di Operatori specializzati, di richiesta e offerta sul
mercato del lavoro - ogni sforzo è destinato a rimanere lettera
morta, e poco importano i pochi casi ben riusciti a fronte dei tanti
fallimenti e peggio dei troppi detenuti in lista di attesa. Un uomo
ristretto costa al popolo italiano oltre 300 mila lire al giorno,
eppure il degrado e la inefficacia trattamentale rendono il più delle
volte questa spesa “
terribilmente superflua”. Allora
perché non credere di più nelle capacità di promozione e recupero
umano offerte dalle comunità, in particolar modo dalla “Casa del
Giovane” per il territorio pavese? Perché
non destinare alle comunità i fondi necessari e sufficienti per poter
intervenire sulle diverse tipologie di reati e di persone? Occorre
prendere atto dell’opportunità di quantificare e amplificare
qualitativamente il concetto di solidarietà costruttiva ( e non solo
protettiva ), che miri al raggiungimento di una solidarietà anche
produttiva, perché nell’aiutarsi reciprocamente, nell’impegnarsi
vicendevolmente è sottesa la capacità di ognuno di crescere e
compiere il proprio cammino non soltanto interiore, ma proiettato
all’inserimento lavorativo esterno alla comunità stessa ( come del
resto dovrebbe avvenire in un carcere a conclusione della condanna
espiata). Quanto
fin qui detto non nasconde le difficoltà in cui opera anche questa
comunità, quel che importa, come diceva il suo fondatore e come
testimonia il suo successore Don Franco: “ Non è mai lecito
arrendersi…Per vincere bisogna lottare, perché si vince quando non
si perde l’ultima battaglia”. Per
restituire al carcere la sua vera funzione, potrebbe essere salutare e
intelligente, come alternativa alla deresponsabilizzazione-infantilizzazione
dilagante, alla inutilità della pena fine a se stessa, affiancare il
servizio offerto dalle comunità ( per ora affidate a pochi privati e
sacerdoti ), che consente di recuperare l’individuo non solo
attraverso la fede che professa, ma anche e soprattutto attraverso il
riconoscimento di ciò che in ciascuno incombe; la
responsabilità di " ritrovare e ricostruire se stesso". Come
tanti altri ragazzi qui con me, anch’io ho un vissuto deviante,
diciamo pure criminale, e in questa dinamica
educativa-formativa-autorealizzante mi viene da dire che: ci
siamo messi il passamontagna tante volte, occorre avere il coraggio di
togliercelo. Perché se metterlo è un atto di forza, toglierlo è un
atto di dignità 27-6-2000 _________________________________________________________________ |