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  Risposte

Alcuni educatori e ragazzi di Azione Cattolica Giovani di Venezia avendo letto alcuni miei articoli on line, mi hanno scritto e posto alcune domande:

1) Cosa si prova quando la sentenza di condanna è l’ergastolo?

2) Come consideravi la libertà prima del carcere?

3) Come consideri la libertà ora in carcere e nella tua condizione di detenuto e semilibero?

4) I tuoi valori e le priorità sono cambiate?

5) Internet con la sua nuova tecnologia cosa rappresenta per te?

Ora cercherò di illustrarvi la mia condizione e situazione attuale.

Sono in carcere da 28 anni, condannato all’ergastolo, da alcuni anni usufruisco di permessi premio e di lavoro all’esterno in semilibertà.

Attualmente svolgo attività di  tutor nelle comunità “Casa del Giovane” di don Franco Tassone a Pavia.

Seguo ed accompagno ( forse è meglio dire che sono loro ad accompagnare me ) nel loro cammino dei ragazzi giovanissimi ed anche degli  adulti.

Essendo nella misura alternativa della semilibertà, posso inoltre trascorrere qualche ora a casa con la mia compagna e il nostro cane, e tutte le sere alle 22 rientro in carcere.

Da tempo incontro ragazzi e giovanissimi in parrocchie, scuole e università, e da questi incontri fuoriescono riflessioni, nonché idee da cui partire per sempre nuovi progetti.

Nonostante quanto sopra scritto rimango pur sempre un uomo detenuto.

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L’ergastolo è morte civile, ciò che sta scritto nella mia cartella biografica è: fine pena mai.  Questa dicitura la dice lunga, no?

Negli anni in cui mi ribellavo ( ma ero unicamente un ribelle inconcludente e disperato ) a tutto e tutti, e il carcere non era quello attuale, ma un’arena, non sentivo il peso di questa condanna, ero preda di una lucida follia, soprattutto non ero consapevole che in carcere “ci sono solo uomini vinti “, e per concludere, quando non hai più nulla da perdere, e ti circonda il nulla, la speranza scompare con la tua umanità.

Il carcere non è quello dei films o dei romanzi, il carcere sequestra i bisogni (desideri ) stabilendo quando questi possono essere soddisfatti, e quando e dove è possibile soddisfarli, impossessandosi così dei corpi e dei movimenti.

In carcere c’è un luogo, un tempo, uno spazio per ogni cosa che può essere fatta: dormire, lavarsi, studiare, svegliarsi, lavorare, passeggiare ( non ci crederete, ma ben poche di queste cose sono possibili).

Giorno dopo giorno, con una monotonia ripetitiva che uccide la fantasia e la creatività.

Tutte le attività sono programmate in anticipo ( dagli educatori, figure professionali preposte per legge per il trattamento rieducativo del detenuto, ma di educatori ce ne sono davvero pochi. E allora? ) in modo identico per tutta la comunità, senza che preferenze e desideri abbiano la minima importanza.

Il carcere non è solo la fisicità della segregazione, ma l’espressione di un modello culturale basato sull’esclusione, e su una pena che finisce per alterare profondamente  la percezione del tempo, dello spazio e quindi delle relazioni.

Privazione della libertà personale, è già la pena più grande, ma essere senza speranza, significa trascorrere giorno dopo giorno, anno dopo anno, con il passato che ricompone la sua trama, e il passato, presente e futuro, sono lì, in un attimo eterno dove il futuro non esiste.

Questa preclusione alla libertà personale, e sottomissione alla volontà altrui, conduce in un labirinto dove la vita sociale è ferma e ogni certezza scompare.

Inutile nasconderlo, il carcere continua a permanere un luogo separato che separa le persone detenute, ma allora come è possibile pretendere che il carcere recuperi alla società, se esso rappresenta un tempo e uno spazio esclusi dal tempo e dallo spazio della società?

Credo fermamente che il carcere recupererà alla società quando esso stesso sarà recuperato dalla società.

Si isola il carcere per proiezione dell’ombra, per immaginario collettivo, allontanandolo da qualsivoglia coscienza sociale.

Lo si pensa popolato di dannati, di mostri, di persone irrecuperabili, a tal punto da rimuoverlo, da rinchiudervi dentro tutto il male del mondo, la parte nera della società, dove ognuno ha paura di riconoscersi, e per questo lo si allontana, lo si esclude, lo si ghettizza.

Eppure un eccesso di pena, di condanna, di volontà al disinteresse e alla negazione di attenzione sensibile, senza uno scopo condivisibile, non credo possa essere considerata una punizione comprensibile e giusta, forse in questi termini ha più somiglianza con la rappresaglia.

Il delitto è chiaramente un atto odioso, inaccettabile, per cui occorre severità, ma la pena deve essere solo un tragitto di vita, che al suo finire espliciti forza e umanità sufficienti, per ricomporre quella inalienabile istanza che lega e salda le persone: la solidarietà sociale.

La pena dunque come un atto che punisce il crimine ma che rispetta l’uomo.

Il carcere c’è, è là, esiste nel suo fisico-psicologico-culturale, eppure si tende a ignorare la questione carceraria, e lo si fa per placare la coscienza collettiva, la quale sa bene che la prigione è il luogo ove seppellire e poi dimenticare i sintomi e gli effetti che lacerano la società.

Ecco perché il carcere non è ancora e purtroppo sentito come un problema sociale, perché appunto non riguarda la parte buona della società, di conseguenza  è preferibile rimuovere e dimenticare.

Questo atteggiamento produce un distacco profondo tra carcere e società, distacco che fa scordare come i reclusi, colpevoli e innocenti, sono cittadini come tutti gli altri, nati e vissuti nella stessa società, uomini che hanno sbagliato e per questo sono stati considerati devianti.

Uomini che stanno pagando il loro debito alla società.

Finchè ciò sopraddetto non sarà motivo di una discussione pacata e costruttiva, gli affetti e le relazioni sono annullati, in aggiunta alla privazione  del bene più grande, cioè della libertà.

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Parlare della libertà, sottende il possedere una capacità prospettica non indifferente.

Non è facile riuscire a guardare avanti, oltre gli ostacoli e l’isolamento.

Non è facile riuscire a vedere più in là delle miserie che ci portiamo addosso.

Allora pensare alla libertà in un luogo che la nega, e nega la conoscenza di una cultura del bello, ci si riduce alla pretesa di ritornare a muovere le membra e la mente, a non sottostare alle prescrizioni e alle regole imposte.

La cella diviene un proscenio ove la fuga in avanti comporta l’esaltazione di una libertà non interiorizzata, ma delegata all’istinto di non subire la sofferenza della privazione.

Ma la sofferenza non può essere fine a se stessa, il dolore deve essere mezzo e preludio per una gioia, come il riscatto per il detenuto.

Espiazione non può essere mera sopportazione di un male imposto, ma riconciliazione con se stessi e con gli altri.

Si tratta di una trasformazione nella rinuncia anche dolorosa dei vecchi convincimenti, e quindi di una nuova accessibilità al richiamo della coscienza, il che significa maturazione.

E’ una trasformazione che coinvolge l’interezza dell’uomo, passando da una assimilazione dell’ombra, da una assunzione della colpa, da un rimorso che deve essere anticamera di ben altra dimensione, cioè del pentimento.

Solamente nella consapevolezza del male fatto, nell’accettazione della pena, è con l’elaborazione della propria colpa, è possibile convivere con il carcere e la propria condanna, e quindi maturare la capacità di fare un passo avanti, senza stati di ansia e utopie all’intorno.

La libertà non è qualcosa che veste l’abito del mito, la libertà almeno per me, oggi, è pratica di vita, non solo possibilità di scelta tra bene e male, ma nel sentirmi davvero libero nel mio cuore, sento la responsabilità a cui la mia coscienza è finalmente tenuta, e non solo per legge, ma perché oggi comprendo che ogni mia azione è secondo coscienza.

Allora la mia libertà è certa se io imparo a rispettare la libertà dell’altro, a comprendere che non esisto solo io e non sono io il centro, bensì esisto e cresco, se comprendo e sono insieme all’altro.

La mia libertà sta nella scelta di prendermi in braccio e stringere i denti, di aiutarmi e possibilmente essere di aiuto agli altri.

La anormalità del carcere, di chi come me si è creduto un mito, sta nel non avere mai chiesto aiuto agli altri, mentre essere “normali” significa proprio questo, e la società è tale proprio per questo requisito essenziale.

Della libertà che avevo prima di entrare in carcere non mi è rimasto nulla, perchè non ero libero: infatti non avevo scelte, infatti le rifiutavo, accettando unicamente il mito della forza e della violenza, negando valore e contenuto alla mia famiglia e alla scuola, che ho abbandonato per un atto di trasgressione: non subordinando mai le passioni alle regole.

Il risultato è stato devastante.

Non mi manca nulla di quella pseudo libertà, inoltre ho imparato che l’uomo libero non ha bisogno di essere replicante di se stesso.

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Sono certamente cambiati i miei valori e dunque le priorità.

Ieri non c’erano i valori, bensì disvalori. C’erano gli assoluti, i falsi miti, c’era il tutto e subito.

La forza e il coraggio altro non erano che incoscienza.

C’era il mito della trasgressione divenuta devianza.

Invece la vita non occorre vincerla per paura di morire, bisogna solamente tentare di viverla, anche quando appare una linea mediana a volte banale, a volte sonnolenta, ma sicuramente non votata all’annientamento.

Non occorre inventare nuovi valori, c’è già una piattaforma di valori veri e largamente condivisibili: è necessario riprenderne la sintesi.

Per me oggi, nella mia istanza interiore di sentirmi affratellato con tutto ciò che mi circonda e vive, è intrinseca quella piattaforma di cui prima parlavo, con l’aggiunta di riuscire a riappropriarmi di una autostima che non dovrebbe mai venire meno.

Cekov ci ha detto: “la vita è passata e non me ne sono accorto”, ebbene, dalla mia ridotta specola, e in tutta la mia ignoranza, forse è il caso per l’uomo detenuto di fermarsi un momento ad ascoltare, e con umiltà dire: sono stanco di essere un uomo incapace di sognare, sono stanco di rimpiangere, di maledire, sono stanco di essere il barbaro che tenta di arrivare fino a Dio.

Forse Dio è gia qui in questa vita, in questa vita che non occorre prenderla come una sfida per vincerla a tutti costi, calpestando chi cade affaticato.

Forse questa vita merita sul serio di essere vissuta, perché davvero l’uomo è una fune sull’abisso, e tra il grand’uomo e il pover’uomo c’è a fare da ponte l’uomo.

In conclusione è attraverso il presente che occorre comprendere ciò che ha prodotto il passato, e senza esser dei cantori dell’infelicità e della disperazione della felicità, possiamo affermare che la speranza è,si, scienza del non ancora, ma essa avverrà, se con l’impegno di tutti.

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Internet in carcere non esiste e in quei pochi istituti dove c’è una redazione di giornale, vi sono programmi con accessi altamente controllati e limitati.

Personalmente ho preso confidenza con questa tecnologia nel momento in cui ne ho avuto bisogno, per esempio in comunità, perché lavoro all’interno di un centro stampa, e poi perché a casa ho un pc che mi permette di dialogare a distanza con tutto il mondo.

Per me è chiaramente facilitante, perché scrivo e posso pubblicare le mie relazioni e libri in una frazione di secondo e riceverne i commenti in ancor meno.

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Vincenzo Andraous

Carcere di Pavia e

Tutor Casa del Giovane di Pavia

 

Tel. 0382-3814417 sul lavoro

e-mail  centrostampa@cdg.it sul lavoro

e-mail vincenzo.andraous@libero.it a casa

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