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SCUOLA E PREVENZIONEA scuola un’altra volta. Più
classi da incontrare, ma con una sola percezione: c’è una distanza
siderale tra l’apprendere nozioni trasmesse dai docenti e
l’impatto con il reale intorno. C’è davvero distanza tra i
ragazzi in fila per tre, e le problematiche più aspre, che compongono
le assenze, i vuoti, i disagi del sociale dilagante. Sono
andato a incontrare i giovani di un istituto superiore, giovani con
gli occhi lucidi di chi disconosce, ma intende prendere parte al gioco
intenso di questa vita. Giovani
che domani saranno assistenti sociali, studenti dell’ultimo anno,
con cui ho parlato e discusso di disagio, trasgressione, devianza, di
carcere e di comunità. Giovani
che nel bel mezzo dell’incontro mi hanno chiesto: cosa possiamo fare
noi? Sono rimasto colpito da
questa domanda, non solo perché a porla erano le future figure di
riferimento per studiare tempi e modi di un intervento di prevenzione
e di un programma educativo. Sono rimasto sorpreso dalle affermazioni
di alcuni genitori, che hanno espresso la liceità e legittimità di
questa domanda, a tal punto da appropriarsene essi stessi. In
un contesto così complesso come quello del disagio, non sempre è
facile operare, perché dove questo si espande e corrode, quasi niente
è legato da un rapporto causa-effetto, quasi mai esiste una
spiegazione lineare: infatti, l’uomo, la persona, l’essere, non è
un accadimento meccanico. Mentre
alle parole si accompagnavano dati, statistiche, percentuali, mi sono
reso conto, di quanto fosse relativo confermare con i numeri, una
scelta di politica criminale, lo sbilanciamento tra repressione e
prevenzione, tra punizione e rieducazione. Mi
sono reso conto che su un principio universale, non esiste veramente
mediazione, cioè la centralità della persona, della sua dignità,
della sua responsabilità di esistere e vivere nel rispetto di se
stesso e degli altri. Proprio
per questa premessa inscindibile da qualsiasi costrutto intellettuale,
ho sentito il peso del mio bagaglio esperienziale, del mio stesso
vissuto per quanto inenarrabile per difetto. La
dialettica barocca, figlia di una didattica troppo composta, lascia il
campo aperto alle durezze di ciò che ci impaurisce, allora dalle
babygang, si corre alla pena di morte, alla richiesta di giustizia, e
poco importa, se questa passa da una legge del taglione, che possiede
solo la gratificazione del momento. Mi
accorgo che non c’è informazione, non c’è conoscenza, né
attenzione sensibile. Non c’è informazione sulla pena né sul
carcere, se non quella che regalano i
films o i romanzi. Non
c’è conoscenza di un carcere che non migliora l’uomo detenuto. Non
c’è attenzione sensibile che non è un sentimento di pietismo per
chi offende, né accompagnamento accudente nei riguardi di chi è
offeso. Si
rafforza in me la convinzione dell’importanza di un messaggio
mediatico che non sposti l’attenzione da un’altra parte, o peggio
induca a deleterie ipnosi collettive. Prevenzione
non è una convinzione astratta ma un’operazione che va condotta
senza tentennamenti, significando che essa non è strumento basato
esclusivamente sul fattore “forza”, ma sul fattore “consenso”,
consenso alle regole del vivere civile. “Educare
alla non superficialità, affinché l’intera società si senta
corresponsabile nella prevenzione dei reati”. Occorre
diventare protagonisti attivi di questa vita,
a tal punto da assumere in prima persona il ruolo di agente
sociale, ciò per tentare di spostare l’asse di coordinamento
sociale, basata per lo più su un’accettazione di illegalità
diffusa. E’
in questo sentire, e nella lettura evangelica, e del vivere con la
propria umanità, che può esserci il superamento della difficoltà ad
accorciare le distanze, e forse perdonare. Infatti
la logica del perdono, può nascere; “non nell’inerzia di
acconsentire di scendere sullo stesso piano di chi mi ha fatto del
male”, ma deve tradursi anche in istituti giuridici. Una
società “tiene” se riesce a interiorizzare qualcosa, ecco
l’importanza del consenso delle regole. Pasolini
ci ha parlato di forza della ragione, di risposte della ragione con le
idee e con i sentimenti. Io nella mia piccolezza, in questa aula gremita di tanti “domani” a consolidare ruoli e competenze, penso che l’eventuale aiuto da affiancare al disagio in cui è piegato l’altro, sta nella mano tesa e aperta di chi nella propria coerenza non desiste mai di credere in una comunità che cambia mentalità, dove tutte le forze e le Istituzioni non possono più fingere di non vedere la svolta di un più ampio processo di mutamento sociale. Vincenzo
Andraous Carcere di Pavia
e tutor
Comunità Casa del Giovane di Pavia Aprile 2002 _________________________________________________________________ |