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SEPOLCRI
IMBIANCATI Oggi, nell’ascoltare alcune notizie alla televisione e leggendo accadimenti che paiono trovate cinematografiche, mi ritrovo a pensare alla condizione del detenuto e al ruolo di chi è preposto a vigilare ed educare.Forse quanto accaduto a Sassari non vuol dire nulla, certamente non significa molto per chi non era nel gruppo di quei malcapitati. Forse ciò che è accaduto è una sottigliezza di poco conto, dal momento che c’è chi scrive a caratteri cubitali che: non c’è da meravigliarsi, tanto nelle carceri americane ( guarda caso privatizzate ) accade anche di peggio, ma nessuno si scandalizza. Chi usa questo metro di misura dimentica però
di sottolineare che in quel paese, preso a modello, esiste la pena di
morte che non risolve un bel nulla, che per le strade è un “far
west”, che armi e droga sono un “business” e via discorrendo. Quanto
si è verificato a Sassari non è poi così sorprendente, al
limite sono una novità “i
colpi a freddo elargiti con alta professionalità “. Non mi stupisce perché ci sono passato
anch’io. Sebbene sia
diventato un residuato in estinzione da tempo,
e comunque andavo
a cercarmele, nel senso che tutto ciò che di più sbagliato mi
arrivava addosso, in risposta ai miei ripetuti errori, ribellioni e
follie, era ciò che mi aspettavo. Ma a farmi amare la vita e gli
altri è stato ben altro. Perché pratiche così vecchie riaffiorano
ora, a distanza di tanti anni? Perché
proprio adesso che è cresciuta
la maturità della popolazione carceraria, e
impegno e cultura hanno creato ponti per un
contatto tra “dentro”
e “fuori”? Proprio ora che Direttori, Operatori, Agenti
di Polizia Penitenziaria e detenuti hanno lavorato duro per un carcere
che non coincida solo con la fisicità della pena intesa solamente
come punizione, come espressione o modello culturale basato
sull'esclusione o su una pena che finisce per alterare profondamente
la percezione del tempo, dello spazio e delle relazioni. Sarebbe facile rispondere attraverso una
pseudo sociologia carceraria, oppure incancrenendo il dibattito sulla
rieducazione e sulla sicurezza, per la più soddisfacente
realizzazione delle finalità della pena, ma che sfugge a ogni
regolamentazione giuridica e umana per i problemi endemici
all’Organizzazione Penitenziaria: il sovraffollamento, la carenza
del personale, di fondi. Tutto ciò va ad aggravare e annullare per
molti versi, quella pari dignità di rilievo che invece dovrebbero
avere la sicurezza e la rieducazione. Per cui inutile giocare a
nascondino: il carcere risente di quanto in questi anni non è stato
fatto per fare comprendere che è un preciso “interesse
collettivo” guardarvi dentro e accertarvi tutto ciò che accade. Quando si parla di umanità ristretta c’è
la propensione a
discuterne per fallimenti, mai per forza d’interventi,
d’investimenti, mai per un tragitto di vita che rimane comunque una
dimensione umana. Qualche tempo addietro, io stesso, come
detenuto, mi sono sentito tutelato e anche
stimolato a continuare nel mio percorso di formazione e
di ricostruzione interiore, ascoltando le parole di un Ministro
di questa Repubblica, il quale affermava: più sicurezza equivale a più
possibilità di rieducazione. Io penso che il carcere così com’è non
rieduca affatto; ognuno all’interno è costretto a prendersi in
braccio e stringere i denti.
Mi prende il dubbio che sotto il concetto di
sicurezza in carcere si possano nascondere fatti
come quelli di Sassari: e in chissà quanti altri istituti penitenziari
della penisola. Forse potrebbe essere un buon viatico unire
alla prima affermazione istituzionale, una seconda che giunge dalla
base: con una reale rieducazione ci saranno più persone che
renderanno meno impervia la strada per
quella fiducia reciproca capace di smantellare
ogni forma di ideologia che vuole poveracci contrapposti ad
altri poveracci, allargando di fatto
il mondo
penitenziario. Occorre aggiungere che in riferimento alla
rieducazione ben pochi investimenti sono stati effettuati, e persino
in questo momento di grande amarezza non si riflette sulle urgenze del
riformare e dell’investire, ci
si getta sul concetto di rafforzamento della sicurezza e di aumento
degli organici di Polizia Penitenziaria, ma neppure una parola è
spesa per denunciare un trattamento penitenziario inapplicabile per
mancanza di Educatori, Assistenti Sociali, Psicologi, Criminologi:
figure fondamentali per poter attuare quel percorso di
rinascita auspicato in ogni detenuto. Non una parola è sussurrata fin’anche
sottovoce sugli spazi ristretti o inesistenti per lavorare e per
impegnarsi quotidianamente. Soprattutto non una parola è davvero
accolta per educare a una cultura di convivenza civile, di
responsabilizzazione che coinvolga tutti, nessuno escluso. A mio avviso la strada da seguire non é
quella della critica passiva sugli Agenti cattivi, sul fallimento del
carcere come luogo di rieducazione e di recupero; ma appare pressante
continuare a sensibilizzare la società civile sul problema del
rapporto tra pena e carcere, allo scopo di far crescere nei detenuti,
negli Agenti e nei cittadini
un profondo e obiettivo ripensamento culturale sulle funzioni e sulla
validità del carcere, sul ruolo della pena, partendo dalla dignità
della persona e dalle sue capacità e risorse. _________________________________________________________________ |