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Sepolcri imbiancati
Ci
risiamo, un altro detenuto si è tolto la vita, un altro numero da
immettere nel pallottoliere, un altro rompiscatole in meno. Per la cadenza
impressionante che assumono questi accadimenti, verrebbe da dire che
il problema del sovraffollamento sta per essere risolto per vie del
tutto naturali, per autoesclusione. Ciò che però
rende dura la digestione anche ai più disinteressati, sta nel fatto
che l’ennesimo scomparso non era un delinquente incallito, neppure
un uomo abituato alla gabbia, né era una persona che si sentiva
illusoriamente eroe vincente in una prigione, bensì era un poveraccio
extracomunitario con pochi giorni da scontare. E allora? Dirà
qualcuno. Be’, si potrebbe
obiettare, che non occorrono navi in mare né uomini in divisa alle
frontiere, si potrebbero risparmiare dei bei denari, conducendo il
bagaglio umano in galera, una volta ripescato sulle strade, tanto non
è gran spesa un po’ di corda e di sapone. Sarcasmo, cinismo? O
ricorso spregiudicato all’estremismo reale? Non so più quale delle
due opzioni mi appartenga, ma forse sarebbe bene che qualcuno si
chiedesse come rendere le parole meno vuote e i fatti più
consistenti. Certo è che del
carcere tutti sappiamo tutto, ma a pochi importa qualcosa davvero. Questo vale anche per
chi in carcere muore, per chi in galera sopravvive e per chi ci
lavora, perché ognuno parla, agisce, dimentica, per ideologia, per
appartenenza, di conseguenza ognuno mira al proprio interesse
personale, al rafforzamento della propria casta, al male minore da
scegliere. E così i morituri non
fanno notizia né suscitano pietà: quella è finita da un pezzo nelle
carceri italiane. Esaurita la pietà,
come la sensibilità, perché la prigione così deve essere: un luogo
di morte, in cui ipocritamente è richiesta speranza e riabilitazione. Il carcere e la pena,
il carcere e la persona umana, il carcere e gli operatori mai
sufficienti, il carcere e la sicurezza, il carcere…..e l’uscita
con i piedi in avanti. Un tempo (
fortunatamente superato ) si “evadeva” in questo modo tra rivolte
e omicidi, oggi per somma di sofferenza e di abbandono, e seppure la
differenza sia abnorme, non saprei quale delle due eredità sia un
fardello accettabile. In questa inumanità
che allontana e divide, appare pressante una domanda. Si tratta di
stabilire una certezza, non solo quella della pena, troppo spesso
usata come nascondimento di ben altre assenze politiche, occorre
piuttosto delineare un’altra certezza, quella della vita, della
dignità, della speranza. E lo si può fare partendo da un
interrogativo, che può apparire anacronistico: a chi il compito di
educare? Educare perché e a che cosa e quando? Queste domande, che
possono riguardare ambiti diversi e ruoli distanti tra loro, sono
interrogativi esistenziali, e dalla risposta che daremo, responsabile
o disimpegnata, dipende in generale la qualità della vita sociale,
nello specifico invece il sentire e l’agire di chi il carcere lo
gestisce e ancor di più lo vive, subendolo passivamente. Quando una persona
muore tragicamente e, peggio, in solitudine, non ci sono soluzioni
esaustive o convincenti per far sì che quanto accaduto non si ripeta,
ma almeno si può tentare di chiamare con il suo nome quella assenza
che ha causato il danno: in questo caso l’attenzione. Si parla spesso di
rieducazione, di trattamento, di pena che recupera, di mezzi e
strumenti che mancano, forse occorre fare un passo indietro, e
pensare, dentro e fuori, nella posizione che ognuno occupa, che siamo
educatori e educandi, sempre e comunque, e
educare alla vita può diventare un imperativo anche in galera:
se sapremo riconoscere il valore della dignità umana. Educare a rieducare
non è uno slogan, né una critica, bensì è intendimento e capacità
operativa, affinché il costruire e ricostruire insieme non rimangano
forme dialettiche rinsecchite, che servono solo a giustificare il
proprio compito, ma ritrovino un sistema di valori, di diritti e
doveri condivisi, come processo veritativo per una conquista di
coscienza. Il carcere c’è in
tutto il suo fisico-psicologico e non se ne può fare a meno: ma di
morti ammazzati per sofferenza, solitudine e abbandono, credo proprio
di sì. Forse il metodo da
adottare e portare avanti per riuscire ad accettare le prove della
vita, anche le più dure, sta nel tentare di delineare progetti
futuri, che vedano il detenuto impegnato in prima persona. Infatti è
al detenuto ( giustamente ) che si chiede di fare autocritica, di
accettare l’accompagnamento in un tragitto di vita privo di libertà,
a causa delle proprie azioni sbagliate. Di fronte
all’impiccato di turno, potrebbe essere salutare ribadire
l’importanza dell’autorità in quanto autorevole, perché chiamata
a svolgere una funzione delicata, non limitata al contenere, una
funzione ineliminabile nelle tante storie anonime e lacerate, quella
di educare alla vita, senza falsi moralismi, ma attraverso una
relazione, un rapporto con la società, perché è solo
nell’incontro con l’altro che esiste possibilità di uscire dal
proprio sé. L’altro siamo noi,
nessuno escluso.
Vincenzo Andraous tutor
Comunità Casa del Giovane di Pavia
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