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Volti nuovi e abiti vecchiNell’incontrare
tanti giovanissimi e tanti adulti in una comunità, viene da pensare
ai volti nuovi, alle carni zigrinate dagli inciampi, dalle droghe,
dagli abbandoni seguiti a catena. Viene da pensare agli abiti vecchi e
al tempo che ogni cosa riporterà al suo posto, ma io che di tempo ne
ho avuto tanto, a ben pensare non so ancora bene cos’è, figuriamoci
se posso spiegarlo ad un giovanissimo che del tempo a venire non sa
che farsene. Metodo
educativo e atteggiamento educativo sono indirizzi precisi, affinché
chi affaticato cade, possa, attraverso un percorso di risalita,
riacquistare autostima e conoscenza di sé, per poi costruire e
mantenere rapporti e relazioni significative, con la capacità di
custodire parte del futuro in esse contenuto. Occorre
educare bene, educare con amore e fiducia: queste sono parole grandi,
affermate da chi grande è stato nel campo della pedagogia del
servire. Sono
passati anni, ma ancora mi stupisco di fronte all’incedere del
disagio che aggredisce giovani e adulti, rimango perplesso, disarmato,
senza frecce nella faretra, solo interrogativi. Ascoltando
( i ragazzi ) e le più autorevoli figure di riferimento nel campo
della pedagogia e del metodo educativo, mi rendo conto che nel
tentativo di “ tirare fuori “, di costruire e crescere insieme,
non può resistere all’usura del tempo chi parte per “ questa
avventura “ con un bagaglio di certezze inossidabili, di regole
intransigenti, di binari singoli. Infatti
questo è l’ atteggiamento più idoneo per arenarsi negli errori
ripetuti. Forse
è il caso di armarci di qualche incertezza, dismettendo i cingoli per
evitare l’ urto, accettando il dubbio che assale, e che potrebbe
divenire una certezza sul modo per giungere insieme al traguardo . E’difficile
sapere, conoscere e agire, quando un giovane se ne sta impettito, a
muso duro, felice di avere scelto il vicolo cieco , è davvero
difficile spiegargli quanto è doloroso, POI, il resto che se ne
ricava. Educare
non sempre ha medagliamenti o riconoscimenti, spesso è un’avventura
senza cielo per compagno, ove non sfugge certo l’utilità
dell’opera, ma in cui a volte si producono incomprensioni, quando
sguardi diversi interpretano in modi differenti la pur identica
finalità dell’accompagnare l’altro. Ecco
che allora una comunità è tale,
perché alla priorità del rispetto della persona, affianca
l’aggiornamento del conduttore, di colui che a sua volta deve usare
il linguaggio in un labirinto di sensazioni e intendimenti,
consapevole che non sempre si arriva alla meta per sentieri
conosciuti, ma anche per nuove strade che possono coglierci
impreparati. C’è
il lavoro, lo studio, i momenti di aggregazione, ci sono le situazioni
di confronto, quelle spontanee e quelle stimolate, c’è soprattutto
la persona da accogliere, da ascoltare, e ciò rende secondario il
primato delle competenze, le stesse provenienze esperienziali, che
sembrano apparentemente differenti se non distanti. E’
complicato “ operare “ con il disagio, forse è ancora più
complesso venirne a capo, perché questo abusare delle cose, delle
persone, dei sentimenti, è tessuto insieme attraverso il deteriorarsi
dei valori e dei principi, che rimangono tali didatticamente e assai
meno nel vivere quotidiano. Prevenire
con progetti condivisi e realizzabili rimane solo una intuizione che
soccombe alle pressioni economiche-politiche: reprimere costa meno che
prevenire, ma il risultato è l’accettazione dell’esclusione, del
“sei fuori dal gioco e ci rimani “. Messa
in prova, misure alternative, meno carcere per il minore, più tutela
per chi arranca, ebbene, stanno per diventare strategie pedagogiche
obsolete . Mi
chiedo quale può essere il metro di misura da usare con chi è
lacerato dentro, se poi questa vista prospettica richiesta al
conduttore, è annebbiata da queste norme a venire. L’impressione
che si ricava nel camminare insieme alle tante lentezze e devastazioni
interiori, è che non solo è difficile ben operare dalle ridotte
specole di osservazione a causa della marea di disagio dilagante, ma
lo è anche soprattutto per l’avanzare di nuove forme di malessere,
che non hanno più l’etichetta protestataria di un tempo. E’ un
inverso ipnoticamente diritto che assale generazioni diverse, che si
insinua più facilmente in chi non ha strutture mentali formate, in
chi nell’evoluzione intellettuale ha ceduto sotto il peso di una
libertà inconsciamente percepita come una condanna, per l’incapacità
ad onorare reciprocamente le proprie responsabilità. E’
un disagio che avanza, che intacca aree di vita in maniera sempre
più esponenziale, allora, e forse,
per chi conduce attraverso eredità pedagogiche più che mai attuali,
perché mai minimamente superate, è necessario accrescere la
consapevolezza che l’unica ricompensa per essere riusciti a ben
educare , è averlo fatto . Vincenzo
Andraous Carcere
di Pavia e tutor
educatore Comunità Casa
del Giovane di Pavia 5-11-2002
Pavia _________________________________________________________________ |