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ROSARIO LIVATINO: IL RUOLO DEL GIUDICE NELLA SOCIETA' CHE CAMBIA

da "La nonviolenza è in cammino" n.339

 

(Ridiffondiamo ancora una volta questo testo di Rosario Livatino, l'eroico

magistrato assassinato dalla mafia; le righe seguenti di questa
presentazione costituiscono la nota introduttiva che premettemmo al testo
nel settembre 2000).


E' trascorso in un cupo silenzio, con poche benemerite eccezioni, il decimo
anniversario della scomparsa di Rosario Livatino. E di questo silenzio
proviamo cruccio e vergogna, come di una smemoraggine diffusa e colpevole, o
peggio: di una crescente cinica indifferenza; sintomi ambedue di come la
mafia e il regime della corruzione riconquistino egemonia nella società
italiana dopo la grande rottura e speranza che proprio dalla Sicilia, dalla
resistenza del popolo siciliano e dal sacrificio di magistrati eroici
divampò in tutta Italia in anni che oggi si tende a brutalmente censurare e
falsificare oscenamente da parte dei nuovi satrapi, che sovente sono altresì
i vecchi.
Il cupo silenzio, un oblio ferrigno, una sorda sordida notte: eppure la
vicenda di Livatino ebbe caratteristiche tali (la limpidezza dell'uomo, la
commozione per il crimine atroce, quegli ineffabili tratti di tragedia
antica, biblica e classica, che sembra informare questa sorte di eroismo e
martirio la cui percezione intimamente ci percuote e ci sconvolge), che
diede luogo ad una vasta riflessione, ad una presa di coscienza profonda.
Merito certo anche del limpido e commosso libro di Nando dalla Chiesa a lui
dedicato, e forse anche del film (a nostro parere peraltro assai inadeguato)
che ne ripeteva il titolo. Ed anche del libro di Pietro Calderoni che
ricostruiva la vicenda di Piero Nava, testimone coraggioso dell'efferato
assassinio del magistrato (L'avventura di un uomo tranquillo, Rizzoli,
Milano 1995).
Rosario Livatino, il "giudice ragazzino": questa espressione di scherno, che
un certo prominente signore schizzò dalle labbra ad ingiuriare quei giovani
magistrati che rischiavano la vita per difendere la civile convivenza e le
istituzioni democratiche negli avamposti di frontiera nelle terre in cui gli
amici di partito di quel signore prominente avevano consegnato il potere ai
barbari che menavano strage fin di bambini e scioglievano le loro vittime
nell'acido affinché nulla, nulla ne restasse, ripetendo un satanico gesto
nazista; il senso di questa espressione, "il giudice ragazzino", fu
rovesciato per sempre dalla rivendicazione dell'eroe di Canicattì fatta da
Nando dalla Chiesa, ed essa è oggi, a scorno perpetuo degli ignobili
schernitori e di tutti i complici dei poteri criminali, evocatrice di civile
virtù, di una generosità sobria, di una magnanima dedizione, di disposizione
quasi leopardiana alla lotta e alla verità e all'amore.
A nostra conoscenza, degli scritti di Rosario Livatino ben poco è stato
pubblicato: abbiamo trovato nella rete telematica il testo integrale della
sua conferenza del 1984 che di seguito riproduciamo. Non è molto, ma da
questo modesto saggio emerge tutto un mondo interiore di forti convinzioni,
di alto sentire, di meditazione scrupolosa, di squisita cortesia, di candore
liliale, anche. Lo riproponiamo come piccolo nostro contributo alla memoria
di un eroe senza prosopopea, di un combattente nonviolento, di una persona
buona: Rosario Livatino, assassinato dalla mafia sotto il regime della
corruzione.
Il testo che segue e' quello di una conferenza tenuta da Rosario Livatino il
7 aprile 1984 presso il Rotary Club di Canicattì. Rosario Livatino aveva 38
anni quando fu assassinato dalla mafia il 21 settembre del 1990; sulla sua
figura cfr. il libro di Nando Dalla Chiesa, Il giudice ragazzino, Einaudi,
Torino 1992




L'argomento proposto vuole offrire materia di riflessione su due temi, che
possono anche porsi in perfetta antitesi fra loro: la società che cambia e
il magistrato.
Da un lato viene considerata la società intesa come unione ordinata e
regolamentata di persone che vivono in un ambito territoriale (e, quindi,
per noi la società italiana), la quale è per sua stessa natura una entità in
continua evoluzione: essa si trasforma, a volte sensibilmente e a volte
insensibilmente, in modo quotidiano, dando luogo a ciò che, nel termine più
comprensivo, viene definito come l'evoluzione perenne del costume.
Dall'altro abbiamo la figura del magistrato: egli altro non è che un
dipendente dello Stato, al quale è affidato lo specialissimo compito di
applicare le leggi, che quella società si dà attraverso le proprie
istituzioni, in un momento di squisita delicatezza del loro operare: il
momento contenzioso. Per ciò stesso, il magistrato non dovrebbe essere una
realtà sul cui mutamento ci si debba interrogare: egli è un semplice
riflesso della legge che è chiamato ad applicare. Se questa cambia,
anch'egli dovrebbe cambiare; se questa rimane immutata, anch'egli dovrebbe
mantenersi uguale a se stesso, quali che siano le metamorfosi della società
che lo avvolge.
In questa accezione, il tema proposto potrebbe anche apparire una
contraddizione in termini. Esso però trae le mosse da una diversa chiave di
lettura del ruolo del magistrato, che si è venuta sempre più affermando a
partire dalla metà degli anni '60 e che vuole, esaltando il potere di
interpretazione della legge, tracciare un nuovo rapporto tra tale ruolo ed
il divenire della società.
Partendo dalle premesse, cioè, che non sempre la legge è in sintonia
coll'evolversi del costume ma spesso, troppo spesso, si attarda e si
sclerotizza, si è sostenuto che il magistrato può - pur rimanendo identica
la lettera della norma - utilizzare quello fra i suoi significati che meglio
si attaglia al momento contingente.
Una diversità di ruolo che non può non rifrangersi nel suo stesso
protagonista: il nuovo rapporto cercato fra magistrato e norma legislativa
comporta infatti di necessità che anche il primo esca dalla propria torre
eburnea di immutabilità, di ibernazione sociale, divenendo attento,
sensibile a quanto accanto a lui si crea, si trasforma, si perde.
Ecco, dunque, che i termini del tema propostoci non sono più in
inconciliabile antitesi: le due realtà, società e magistrato, sono su un
identico piano evolutivo e bene si comprende e si giustifica l'interrogativo
sugli effetti che tale parallelismo può avere prodotto, sulla positività o
negatività di questa esperienza che si è voluta vivere e, conseguentemente,
sulla persistente conducenza del mezzo che si è scelto rispetto al fine che
si voleva originariamente conseguire.
Il tema è di amplissimo respiro e di difficile risolubilità, soprattutto
perché il fenomeno al quale implicitamente si riallaccia è tuttora in atto.
Assolutamente pretenzioso sarebbe quindi credere di poterne affrontare la
disamina da parte di chi parla; anche perché la disamina stessa implica
conoscenze, soprattutto sul piano della macro e microsociologia, che esulano
del tutto dalla sua esperienza culturale.
Poiché, però, il dibattito sul ridetto tema è ogni giorno riproposto dai
mezzi di comunicazione di massa ed innumerevoli sono gli episodi reali che
lo impongono all'attenzione della pubblica opinione, è facile presumere che
ciascuno di coloro che hanno la bontà di ascoltarlo rechi con sé dei quesiti
che gradirebbe poter rivolgere ad un addetto ai lavori.
E' questo il taglio che sembra ideale per questo incontro e quanto adesso
brevemente sarà detto avrà il solo scopo di richiamare alla memoria quelle
tematiche che più di altre hanno costituito motivo di pubbliche polemiche e
di fungere quindi da stimolo per le domande, le contestazioni che si
vorranno porre.
Le tematiche sulle quali ci intratterremo sono le seguenti:
- i rapporti tra il magistrato ed il mondo dell'economia e del lavoro;
- i rapporti tra il magistrato e la sfera del "politico";
- l'aspetto della c.d. "immagine esterna" del magistrato;
- il problema della responsabilità del magistrato.
*
1. I rapporti tra il magistrato e il mondo dell'economia e del lavoro
La situazione economica italiana dell'ultimo decennio ha risentito in
maniera notevole delle due crisi dei prodotti petroliferi
(1973/1974 -1979/80) e della persistenza dei fenomeni terroristici e di
instabilità politica. Ad essi si è aggiunta nello scorcio del 1980 una
calamità naturale, quale il disastroso terremoto che ha colpito le regioni
meridionali del paese ed in particolare la Campania, la quale ha creato
particolari problematiche socio-economiche, con gravi riflessi anche sul
piano della repressione penale e dell'ordine pubblico.
Il mercato del lavoro e l'economia monetaria sono stati settori nei quali le
perturbazioni economiche hanno prodotto i loro maggiori effetti. Il tasso di
disoccupazione è andato man mano crescendo, soprattutto a partire dal
1973-74, giungendo a sfiorare nel 1981 il tetto dei due milioni di
disoccupati (8,4% delle forze di lavoro), con progressione continua a
partire soprattutto dal 1976 (tasso di disoccupazione 6% delle forze di
lavoro).
In questo quadro, indubbiamente difficile, si è inserito prepotente il
dilemma fra la figura del giudice-garante degli interessi forti (per i quali
vengono assunti a base i valori industriali dominanti) ed il giudice-garante
degli interessi deboli (cioè degli interessi individuali contro l'eccessiva
concentrazione del potere economico).
Dilemma che nasce dalla convinzione che la presenza giudiziaria possa
esplicarsi in modo incisivo in contrasto colla congiuntura economica e al
fine di sanarne in tutto o in parte gli effetti perversi.
Nell'ansimare dell'apparato esecutivo alla ricerca di politiche economiche
idonee a sciogliere quel nodo congiunturale ormai sospetto di cronicità, v'è
stato chi ha ritenuto che il magistrato possa far buon uso del suo potere
interpretativo delle leggi, accogliendo di esse quell'accezione che
privilegiasse gli interessi delle classi economiche dominanti, così
consentendo alle stesse, svincolate da quei "lacci e lacciuoli", come ebbe a
definirli Guido Carli, di riprendere quella padronanza nel campo
dell'iniziativa privata e quella sicurezza nel settore degli investimenti
produttivi, che avevano consentito all'imprenditoria italiana di creare il
c.d. "miracolo economico" degli anni '50. Una linea, quindi, rivendicativa
per il magistrato di un ruolo di protagonista occulto, indiretto della
macroeconomia nazionale. Una tesi che relegherebbe il Montesquieu ed il suo
principio sulla separazione dei poteri davvero in una polverosa soffitta e
che farebbe inorridire economisti classici come Ricardo o Keynes.
Per contro, v'è stato chi, rigettando il ruolo di "canalizzatore" dei
processi economici, ha caldeggiato quella presenza giudiziaria come elemento
correttivo delle conseguenze nefaste che la congiuntura ha sui piccoli
soggetti economici.
E' la tesi di chi ha voluto il magistrato come difensore delle categorie più
povere e, come tali, più esposte ai capricci dell'inflazione e della
stagflazione, proponendo l'aula giudiziaria come luogo di necessario, di
dovuto riequilibrio fra parte sociale forte e parte sociale debole ed
individuando il processo del lavoro come l'arena più allettante per tale
tenzone.
Per esemplificare quanto si dice, basterà citare il noto caso del pretore
Paone, che, per ovviare ad una crisi di alloggi, ricorse al sequestro di
immobili.
Sul punto quello che si può osservare è:
I. che entrambe le prospettazioni sono senz'altro da rifiutare in quanto il
ruolo che vogliono prefigurare è tale che il magistrato, che dovrebbe
assumerlo, non sarebbe più tale in quanto imprimerebbe a se stesso ed ai
propri compiti dei caratteri e delle finalità totalmente estranei a quello
che ancora oggi è il prototipo dell'interprete giudiziario nel comune
sentire sociale come figura super partes e tali da far seriamente pensare ad
un vero e proprio tradimento nei riguardi di quei valori la cui tutela la
nostra Carta costituzionale affida al giudice ben diverso che essa
implicitamente teorizza;
II. che è peraltro da fugare il timore, purtroppo diffuso, che queste spinte
innovatrici siano largamente radicate nei giudici civili e, soprattutto,
nella magistratura del lavoro; timore al quale si accompagna l'altrettanto
diffusa sgradevole sensazione che l'esito di una controversia individuale o
collettiva di lavoro non trovi la propria fonte nella legge ma nelle
simpatie del magistrato per questa o quella parte sociale. Vi sono stati e
vi sono casi che, col complice aiuto, a volte, di un distorto uso dei mezzi
di informazione, inducono a comprendere come possano essersi formati quel
timore e quella sensazione; ma va rigettata recisamente la tendenza ad una
generalizzazione indiscriminata e va soprattutto con calore affermato che la
maggioranza degli interpreti del diritto nel nostro paese piega ancora le
proprie convinzioni alla legge e non questa a quelle.
Troppo si è esagerato sulla giurisprudenza del lavoro, giudicata come
decisamente di una sola parte del rapporto. Una recente ricerca effettuata
per conto del Ministero di grazia e giustizia, a cura del Centro nazionale
di prevenzione e difesa sociale, alla quale hanno preso parte docenti di
diversa estrazione ideologica, ha clamorosamente smentito simili
affermazioni.
L'indice di vittoria su cause decise con sentenza in primo grado nell'intero
territorio italiano è risultato pari al 64,5%. Tale indice nei giudizi di
appello scende al 29,7% quando appellante è il lavoratore ed al 43,1% quando
appellante è il datore di lavoro.
La ricerca dimostra, nel complesso, un atteggiamento della magistratura del
lavoro, anche in sede di legittimità, tutt'altro che "squilibrato" o
"destabilizzante". Del resto, già una precedente ricerca, condotta nel 1976
dal prof. Mengoni presso l'Istituto giuridico dell'Università Cattolica di
Milano, dimostrò l'infondatezza dell'immagine del giudice del lavoro come
giudice di assalto velleitariamente affetto da protagonismo o comunque di
giudice prevenuto nei confronti di una sola delle parti del conflitto
industriale.
D'altronde, va anche rammentato che, a giustificazione di talune decisioni,
di taluni indirizzi "sorprendenti" o comunque tali da suscitare perplessità,


stanno dei motivi alla cui ricorrenza è del tutto estraneo il magistrato,
venendo essi in essere in un momento precedente a quello in cui egli è
chiamato a svolgere la sua funzione.
Ci si intende riferire:
a) in primo luogo a leggi che di per sé sono chiaramente alteratrici di un
equilibrio nella posizione delle controparti rispetto all'organo
giudiziario: favor del lavoratore, tutela differenziata in sede processuale
e spinte assistenzialistiche non sono invenzioni della giurisprudenza, ma
precise scelte di politica legislativa. Che tali scelte siano giuste od
ingiuste è problema che in questa sede non rileva: ciò che preme è il
sottolineare che molto spesso si fa carico al magistrato di "scelte di
campo" alle quali egli si trova vincolato proprio per quell'ossequio alla
legge che da lui si pretende;
b) in secondo luogo alle difficoltà interpretative del linguaggio oscuro
delle norme che il patrio legislatore oggi emana nella materia con notevole
fecondità e, soprattutto, dello strumento principe, oggi, nella
regolamentazione dei rapporti di lavoro: il contratto collettivo.
La magistratura, per restare ancora fedele al dovere costituzionale di
fedeltà alla legge, altro non cerca, anche per evitare ondeggiamenti,
incertezze ed ulteriori ingiusti rimproveri, che di poter disporre di
dettati normativi coerenti, chiari, sicuramente intelligibili, nonché di
testi negoziali nei quali la posizione di diritto e di obbligo delle parti
non sia offuscata da una trama tormentata di sottili e complicate
espressioni verbali, che nascondono premesse politiche tutt'altro che chiare
anziché una precisa volontà che sostenga il precetto. Fin quando tutto
questo non sarà assicurato dal nostro legislatore e dalle parti sociali in
sede di contrattazione, sarà ineliminabile che il giudice di Pordenone ed il
giudice di Ragusa, con gli abissi di cultura e dei substrati territoriali,
sociali ed economici nei quali si trovano ad operare, cerchino di
districarsi nella perigliosa giungla di queste regolamentazioni adoperando
dei machete interpretativi tra loro dissimili o addirittura contraddittori.
*
2. I rapporti tra il magistrato e la sfera del "politico"
E' forse questo il settore più dolente, nel quale più si impuntano le
critiche e dal quale provengono i maggiori allarmi.
Il tema della politicizzazione dei giudici si inserisce a pieno titolo nel
dibattito sui problemi della giustizia e nell'analisi del rinnovato rapporto
tra il magistrato ed il tessuto sociale nella cui trama egli si colloca.
Tanto con riferimento all'atteggiamento che, talvolta, i giudici avrebbero
assunto, o potrebbero assumere, presentando all'opinione pubblica l'immagine
di una giustizia parziale, fiancheggiatrice del potere politico, di un
partito politico o di un gruppo di potere, pubblico o privato.
L'ipotesi concretizza evidentemente una violazione del criterio
costituzionale che, proprio per evitare ogni forma di strumentalizzazione
della giustizia, garantisce l'indipendenza personale dei singoli giudici,
soggetti esclusivamente alla legge (art. 101), nonché quella della
magistratura nel suo complesso, descrivendola come "ordine autonomo ed
indipendente da ogni altro potere" (art. 104).
Dal combinato disposto delle norme citate, si desume quindi che il
costituente ha voluto escludere ogni pericolo o sospetto di faziosità e di
settarismo dei giudici, sia nell'aspettativa di vantaggi personali o per il
timore di pregiudizio, sia in forza dell'interferenza di altri poteri dello
Stato nella funzione giudiziaria.
E' alla luce di questi principi che deve essere valutata la compatibilità
tra la funzione del giudicare e l'adesione a partiti politici, gruppi,
associazioni.
La trasformazione del partito politico da centro di diffusione ideologica a
struttura associativa caratterizzata da sempre più rigidi vincoli
burocratici e gerarchici, sovente finalizzata alla gestione del potere,
rende oggi assai più difficile di quanto non fosse all'epoca della
Costituente ammettere la possibilità che un giudice possa conservarsi libero
iscrivendosi ad un partito politico.
Si dovrebbe ammettere che il giudice, nel momento in cui si iscrive, fosse
non solo affatto risoluto a non concedere assolutamente nulla al partito
come tale, nei casi in cui il partito ha un interesse, ma che anche i suoi
compagni di fede non si aspettassero assolutamente nulla da lui nel momento
in cui egli dovesse occuparsi di quei casi.
Parrebbe che, sul piano umano, ciò sarebbe troppo pretendere. Che dire poi
della possibilità per il giudice di entrare a far parte di sette od
associazioni che, se non sono segrete, mantengono tuttavia il più stretto
riserbo sui nomi degli aderenti ed avvolgono nelle nebbie di una indistinta
filantropia le proprie finalità e i propri obiettivi?
Se sono già serie le ragioni di perplessità sulla adesione del giudice ad un
partito politico, queste ragioni appaiono centuplicate nella partecipazione
ad organizzazioni di fatto più o meno riservate o, comunque, non facilmente
accessibili al controllo dell'opinione pubblica, i cui aderenti risultano
fra loro legati da vincoli della cui intensità e natura nessuno è in grado
di giudicare e valutare.
Qui bisognerà proclamare, con assoluta chiarezza, che la norma dell'art. 212
T.U.L.P.S., che sancisce l'immediata destituzione per tutti gli impiegati
pubblici che appartengano ad associazioni i cui soci sono vincolati dal
segreto, si applica anche ai magistrati, che ne sono anzi, logicamente,
insieme ai militari, i destinatari più diretti.
Ciò non significa certo sopprimere nell'uomo-giudice la possibilità di
formarsi una propria coscienza politica, di avere un proprio convincimento
su quelli che sono i temi fondamentali della nostra convivenza sociale:
nessuno può difatti contestare al giudice il diritto di ispirarsi, nella
valutazione dei fatti e nell'interpretazione di norme giuridiche, a
determinati modelli ideologici, che possono anche esattamente coincidere con
quelli professati da gruppi od associazioni politiche.
Essenziale è però che la decisione nasca da un processo motivazionale
autonomo e completo, come frutto di una propria personale elaborazione,
dettata dalla meditazione del caso concreto; non come il portato della
autocollocazione nell'area di questo o di quel gruppo politico o sindacale,
così da apparire come in tutto od in parte dipendente da quella
collocazione.
Piace qui riportare il VII canone del codice di condotta adottato negli
Stati Uniti per la disciplina professionale dell'ordine giudiziario e
forense e che testualmente sancisce il dovere del giudice di "sottrarsi
all'attività politica, inadatta al suo ruolo", astenendosi in particolare
dall' "assumere mansioni di leader o dal rivestire qualunque altra carica in
una organizzazione politica", nonché dal "tenere pubblicamente discorsi per
un'organizzazione politica o per un suo esponente o dall'appoggiare un
candidato ad una carica pubblica".
Una previsione deontologica fatta propria da una società storicamente,
economicamente, tecnologicamente più progredita della nostra, che
costituisce, per ciò, un conforto alla validità di quanto prima si è detto e
che dà l'ispirazione per trattare subito di un altro delicato aspetto:
quello del magistrato che, ad un certo punto della propria carriera, si
candida ad una elezione politica ed ottiene la carica.
Si potrebbe osservare che su questo non v'è nulla da eccepire: egli è un
cittadino come tutti gli altri ed in questo non farebbe che esercitare un
suo diritto costituzionalmente garantito. L'ordinamento, peraltro, prevede
che durante il periodo del mandato egli non svolga le sue funzioni
giudiziarie. Ma gravissimo è il problema che si pone allorquando tale
mandato, per una causa od un'altra, viene a cessare: infatti, un
parlamentare, anche quando si tenga rigorosamente nei limiti della legalità,
assume inevitabilmente un complesso di vincoli e di obblighi verso gli
organi del partito, contrae legami ed amicizie che raramente prescindono
(non per cattiva volontà o desiderio di collusione, ma per necessità delle
cose) dallo scambio di reciproche e sia pur consentite cortesie,
dall'assunzione di impegni e obblighi che, appunto perché galantuomini, si è
tenuti ad onorare, si assoggetta infine ad un'abitudine di disciplina (nei
confronti delle varie gerarchie del partito e del gruppo parlamentare) in
contrasto con la libertà di giudizio e l'indipendenza di decisione proprie
del giudice, abitudine difficile da lasciare, anche perché, tranne casi
eccezionali, l'abbandono del seggio parlamentare non rompe i vincoli di
gratitudine e non distrugge il legame fiduciario fra il singolo e la
struttura.
D'altronde, anche ammesso che il magistrato-parlamentare sappia riacquisire
per intero la propria indipendenza dal partito, che ha rappresentato al più
alto livello, e spogliarsi di ogni animosità contro avversari politici che
possono averlo attaccato anche duramente, è inevitabile che l'opinione
pubblica, incline al sospetto e tutt'altro che propensa a credere alla
rescissione di simili vincoli, continui a considerarlo adepto di quel
partito, consorte o nemico di quegli uomini politici e di quanto
rappresentano.
Per inevitabile conseguenza, l'utente della giustizia di uguale militanza
politica riterrà, poco importa se erroneamente, di avere valide aspettative
ad una decisione favorevole e ad un trattamento di riguardo, mentre chi lo
contrasta si crederà battuto in partenza ed addebiterà l'eventuale sentenza
sfavorevole non a propria responsabilità, ma agli obblighi politici ed alla
conseguente preordinata malafede del giudice, costretto a dare comunque
partita vinta al suo commilitone e partitante.
Sarebbe quindi sommamente opportuno che i giudici rinunciassero a
partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora
ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere
ed importanza l'ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta,
bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive
dall'ordine giudiziario.
Nel trattare quanto appena detto, si è fatto un rapido accenno a quella che
è l'importanza del modo col quale l'utente della giustizia guarda colui che
gestisce tale servizio; ciò ci dà il destro per trattare...
*
3. L'aspetto della c.d. "immagine esterna" del magistrato
Si è bene detto che il giudice, oltre che essere deve anche apparire
indipendente, per significare che accanto ad un problema di sostanza, certo
preminente, ve n'è un altro, ineliminabile, di forma.
L'indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza,
nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua
capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza,
nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua
moralità, nella trasparenza della stia condotta anche fuori delle mura del
suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni
nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua
indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi,
nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori
che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre
il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza;
l'indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a
conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua
attività.
Inevitabilmente, pertanto, è da rigettare l'affermazione secondo la quale,
una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali,
il giudice non ha altri obblighi da rispettare nei confronti della società e
dello Stato e secondo la quale, quindi, il giudice della propria vita
privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole.
Una tesi del genere è, nella sua assolutezza, insostenibile.
Bisogna riconoscere che, quando l'art. 18 della legge sulle guarentigie dice
"che il magistrato non deve tenere in ufficio e fuori una condotta che lo
renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere",
esprime un'esigenza reale.
La credibilità esterna della magistratura nel suo insieme ed in ciascuno dei
suoi componenti è un valore essenziale in uno Stato democratico, oggi più di
ieri. "Un giudice", dice il canone II del già richiamato codice
professionale degli U.S.A. "deve in ogni circostanza comportarsi in modo
tale da promuovere la fiducia del pubblico nell'integrità e
nell'imparzialità dell'ordine giudiziario".
Occorre allora fare un'altra distinzione tra ciò che attiene alla vita
strettamente personale e privata e ciò che riguarda la sua vita di
relazione, i rapporti coll'ambiente sociale nel quale egli vive.
Qui è importante che egli offra di se stesso l'immagine non di una persona
austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di
irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria, sì, di persona
equilibrata, sì, di persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di
persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire.
Solo se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può
accettare che egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che
ha.
Chi domanda giustizia deve poter credere che le sue ragioni saranno
ascoltate con attenzione e serietà; che il giudice potrà ricevere ed
assumere come se fossero sue e difendere davanti a chiunque. Solo se offre
questo tipo di disponibilità personale il cittadino potrà vincere la
naturale avversione a dover raccontare le cose proprie ad uno sconosciuto;
potrà cioè fidarsi del giudice e della giustizia dello Stato, accettando
anche il rischio di una risposta sfavorevole.
Un giudice siffatto è quello voluto dalla umanità di sempre, configurato in
ogni ordinamento dello Stato di diritto, esaltato nella Carta
costituzionale. Sotto questo aspetto, pertanto, può ben concludersi che non
vi può essere relazione alcuna fra l'immagine del magistrato e la società
che cambia, nel senso che la prima non dovrà subire modificazione alcuna,
quali che siano i capricci di costume della seconda: il giudice di ogni
tempo deve essere ed apparire libero ed indipendente, e tanto può essere ed
apparire ove egli stesso lo voglia e deve volerlo per essere degno della sua
funzione e non tradire il suo mandato.
*
4. Il problema della responsabilità del magistrato
Quanto si è fin qui detto conduce a porre come argomento di chiusura
l'interrogativo se il mutato sentire sociale, se le trasformazioni
intervenute nel costume del nostro paese siano tali da imporre una nuova
struttura della responsabilità del magistrato, delle conseguenze cioè alle
quali quest'ultimo è suscettibile di andare incontro ove bene non eserciti
la sua funzione.
Il ventaglio dei problemi è vastissimo, ma pare cosa più opportuna limitare
il suggerimento, quale argomento di discussione per chi ascolta, alla
proposta di introdurre la responsabilità civile per danni arrecati a terzi
nell'esercizio di attività giudiziaria per colpa grave.
Sul punto si può osservare come contributo a tale discussione, che
l'introduzione del principio della responsabilità civile pare assolutamente
inaccettabile per molte ragioni, tutte difficilmente superabili.
Ogni atto giurisdizionale, anzi ogni manifestazione di potestà giudiziaria,
incide necessariamente su diritti soggettivi; è per sua stessa natura idonea
a produrre danno. E ciò vale non solo per le manifestazioni tipiche di
potestà decisionale, ma anche per tutti quei provvedimenti che hanno
funzione preparatoria ed ordinatoria rispetto alla decisione finale
(concedere o non concedere un sequestro; ammettere o non ammettere una
prova; concedere o no la provvisoria esecuzione).
Non esiste, si può dire, atto del giudice e più ancora del pubblico
ministero che possa dirsi indolore. Ogni giudice, quindi, nell'atto stesso
in cui si accingesse alla stipula di un qualsiasi provvedimento, non
potrebbe non domandarsi se per caso dal suo contenuto non gliene possa
derivare una causa per danni.
E sarebbe quindi inevitabile ch'egli si studiasse, più che di fare un
provvedimento giusto, di fare un provvedimento innocuo.
Come possa dirsi ancora indipendente un giudice che lavora soprattutto per
uscire indenne dalla propria attività, non è facile intendere. Né si dica
che le parti raramente ricorrerebbero a questa possibilità. La facilità con
cui, specialmente in certe regioni, si ricorre all'esposto contro il
giudice, anche per i più ingiustificati motivi, autorizza la previsione che
una riforma del genere aprirebbe subito un ampio contenzioso.
Se qualcuno volesse obiettare che, in fondo, la responsabilità è prevista
solo per le ipotesi di colpa grave, sarebbe facile rispondere che questa
limitazione introduce un elemento di aleatorietà in più, davvero
insufficiente ad offrire un criterio d'orientamento obiettivo. E' difficile
trovare dei casi di colpa giudiziaria che non possano considerarsi gravi: la
motivazione stereotipa; l'omessa convalida della perquisizione in flagranza;
l'omesso esame di prove risultanti dagli atti; la mancata motivazione su
specifici capi delle domande ecc., sono tutte mancanze gravi. La colpa del
giudice, se c'è, è sempre grave per definizione, data dall'importanza degli
interessi sui quali egli dispone.
L'altro effetto perverso, che potrebbe essere indotto dalla riforma, sarebbe
quello di indurre il giudice al più rigido conformismo interpretativo: per
cautelarsi contro il pericolo di seccature, è semplice prevedere che il
giudice si guarderebbe bene dal tentare vie interpretative inesplorate e
percorrerebbe sempre la strada maestra fornita dalla giurisprudenza
maggioritaria della Cassazione; l'autorità del precedente, che è vincolo
professionale per il magistrato anglosassone, diventerebbe per quello
italiano fatto d'interesse personale e l'art. 101 della Costituzione
potrebbe essere riscritto nel senso che i giudici sono soggetti soltanto
alla Corte di Cassazione.
Quando poi la controversia toccasse affari od interessi di dimensioni
eccezionali, ogni scelta diverrebbe veramente paralizzante: si pensi alla
decisione di un tribunale fallimentare se far fallire o no un grosso
complesso industriale od una catena di società legata magari a centri di
potere politico.
Il giudice veramente verrebbe consegnato nelle mani delle forze che si
scontrano fra loro e sarebbe difficile ch'egli non fosse tentato, se non è
riuscito a fuggire prima di dover scegliere, di secondare il più forte.
Ma gli effetti più devastanti di una proposta del genere si avrebbero in
materia penale, specialmente nel momento dell'inizio dell'azione penale.
Se l'organo dell'accusa sa che le sue iniziative investigative possono
costargli, quando non ne seguisse una condanna, una causa per danni, ci si
può chiedere se sarà mai più possibile trovare un pretore od un pubblico
ministero che di sua iniziativa intraprenda la persecuzione di quei reati
che per tradizione o per costume o per altro nel passato erano raramente
perseguiti. Dai reati societari all'urbanistica, all'inquinamento ed in
genere a tutti i reati che offendono interessi diffusi.
Ci si può chiedere ancora se si troverà un giudice che, in presenza di un
reato che consente ma non impone la cattura, avrà l'ardire di imprigionare,
ad esempio, un bancarottiere per qualche miliardo, quando rifletta alle
conseguenze che gliene potrebbero derivare se, per caso, costui venisse
assolto.
Questo è l'effetto perverso fondamentale che può annidarsi nella proposta di
responsabilizzare civilmente il giudice: essa punisce l'azione e premia
l'inazione, l'inerzia, l'indifferenza professionale. Chi ne trarrebbe
beneficio sono proprio quelle categorie sociali che, avendo fino a pochi
anni or sono goduto dell'omertà di un sistema di ricerca e di denuncia del
reato che assicurava loro posizioni di netto privilegio, recupererebbero
attraverso questa indiretta ma ancor più pesante forma di intimidazione del
giudice la sostanziale garanzia della propria impunità.
Tutto ciò che si è riusciti a conquistare sul terreno di una più effettiva
valenza del principio dell'uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla
legge, verrebbe vanificato di colpo e le condizioni della nostra giustizia
penale sarebbero retrocesse in un istante all'epoca dello Statuto Albertino.
*
Nel concludere, desidererei formulare solo un'ultima considerazione. E'
certo che, tranne alcuni aspetti immutabili, il ruolo del giudice non può
sfuggire al cammino della storia: tanto egli che il servizio da lui reso
devono essere partecipi di un processo di adeguamento. Ma di ciò non può
farsi carico solo ai giudici: non si può cioè chiedere che essi traggano
soltanto da se stessi la forza per questo adeguamento.
Tutto è più complesso in una società moderna in materia di definizione e
difesa dei bisogni, degli interessi, dei diritti.
Nelle società primitive e, comunque, semplici, tutto era relativamente
chiaro in termini di "cosa era giusto e cosa era ingiusto" e tutto era
facile, relativamente, in termini di accesso a chi amministrava giustizia
(il capo tribù, il capo villaggio, il capo religioso); oggi, nelle società a
crescente complessità e soggettività, come sono tutte le società occidentali
mature, è sempre più difficile sapere e far accettare i concetti di giusto
ed ingiusto ed è sempre più difficile individuare e rendere più accessibili
gli strumenti per ottenere giusta protezione.
In questa prospettiva, riformare la giustizia, in senso soggettivo ed
oggettivo, è compito non di pochi magistrati, ma di tanti: dello Stato, dei
soggetti collettivi, della stessa opinione pubblica.
Recuperare infatti il diritto come riferimento unitario della convivenza
collettiva non può essere, in una democrazia moderna, compito di una
minoranza.

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