Un film a trent'anni dalla strage di Derry
BLOODY SUNDAY
di Arnaldo Casali
A
chi ha vissuto l’esperienza di Genova “Bloody Sunday”, il film di Paul
Greengrass da qualche settimana nei cinema, fa venire i brividi.
Sembra
di rivivere quel giornata, quella tensione, quella paura, ma anche
quell’entusiasmo, quella grande voglia di esserci, di rivendicare la
giustizia con la nonviolenza.
Il
corteo enorme lunghissimo che si snoda per le vallate, la camionetta che lo
guida, i leader che raccomandano di essere compatti, di non disperdersi, di non
accettare le provocazioni, di mantenere la calma di fronte ai fucili puntati.
Circondati
dalle forze dell’ordine. La fiducia, la speranza che siano là per mantenere
l’ordine, appunto, e non per reprimere la protesta.
Il gruppetto di estremisti che si separa e inizia la sassaiola. Gli sforzi per contenerlo, per non assecondarlo, per mantenere la calma, per rimanere compatti.
Il
conflitto, le molotov, i lacrimogeni.
La
conclusione del corteo, pacifica, sulla piazza, Il discorso dei leader, che
ricordano Gandhi e Martin Luther King. “Oggi abbiamo vinto”.
E
poi l’inferno. La carica delle forze dell’ordine che si accaniscono sui
manifestanti. Gli spari. Il sangue. La morte.
La
sconfitta della pace.
Chi
a Genova non c’era forse si farà un’idea di come sono andate le cose, di come
possono succedere certe cose, quando dentro le camionette non si parla di
“manifestanti” ma di “bastardi teppisti”, quando gli ordini sono di
colpire forte, di fare male, di rastrellare e arrestare quanta più gente
possibile.
Quando
gli ordini non si capisce più nemmeno esattamente quali siano e chi li dà. E
autorizzate o meno le forze dell’ordine diventano carnefici spietati, che
sparano su gente inerme, che magari sta solo cercando di scorrere un ferito, o
si accaniscono in due, tre con calci e manganellate su un corpo accasciato a
terra.
E
ci si domanderà ancora perché non vengono usati proiettili di gomma, quando si
fronteggia un corteo disarmato.
E
alla fine magari si dirà, cinicamente, che tutto sommato a Genova è andata
bene, visto che c’è stato un morto solo.
A
Londonderry, invece, trent’anni fa, i morti furono 13. Tredici dei ventisette
manifestanti inermi a cui i soldati di Sua Maestà spararono.
Nessuno
di essi è stato processato; nessuno è stato punito.
“Quella
di oggi - dice in lacrime alla fine
del film il politico (protestante) che difende i diritti civili dei cattolici e
ha organizzato e capeggiato il corteo – è stata la più grande vittoria che
gli inglesi hanno regalato all’IRA. Dopo quello che è successo nemmeno io me
la sento più di fare delle prediche”.
E non è solo Genova che viene in mente guardando “Bloody Sunday”, vedendo un ferito che muore ad un posto di blocco, assistendo alla repressione di un popolo, privato di ogni diritto nella sua stessa terra.
Guardando
(ma forse sarebbe meglio dire vivendo) questo film si capisce meglio
anche la tragedia del popolo palestinese e di ogni popolo oppresso. E si
comprende quanto coraggio, quanta forza, quanto eroismo ci vogliano per
continuare a resistere, per continuare a parlare di PACE.